Archivio per gennaio 28th, 2009

di Marco Lombardo

Fernando Verdasco non è uno che da piccolo abbia fatto molta fatica: papà ricco, due campi da tennis nella villa di casa a Madrid, un allenatore personale fin da quando aveva 8 anni. E poi vestiti alla moda, look da playboy del sabato sera e perfino un naso rifatto per essere ancora più appetibile. Insomma, sembrava tutto tranne che un tennista, anche se qualche risultato l’aveva ottenuto. Ma a 25 anni sarebbe diventato uno spagnolo di passaggio se un giorno, in Argentina, folgorato sulla via della coppa Davis, Verdasco non avesse improvvisamente deciso di fare sul serio: è successo – lo scorso novembre – che la Spagna orfana di Nadal andasse a vincere in trasferta l’Insalatiera e che Fernando – trovatosi improvvisamente protagonista della sfida – risultasse decisivo: «È stato il giorno che mi ha cambiato la vita». Buttati via i panni di Tony Manero del 2000, Verdasco si è rifugiato a Las Vegas per passare le vacanze di Natale a casa Agassi, il suo idolo. Il quale – prima di partire con la moglie Steffi Graf per le vacanze sulla neve – lo ha lasciato alle prese del suo vecchio preparatore atletico Gil Reyes, non prima di avergli dato qualche consiglio: «Mi ha detto come devo allenarmi, a quali tornei devo puntare, in quali settimane è meglio caricare il lavoro». In pratica gli ha spiegato come diventare un tennista vero. Così a quel punto da playboy ecco che Verdasco decide di fare sul serio: molla la fidanzata Ana Ivanovic – la più bella del tennis – per evitare di distrarsi,vince il torneo di Brisbane e adesso, dopo aver eliminato il francese Tsonga, è arrivato in semifinale degli Australian Open dove se la vedrà con il numero 1 Nadal: «Lo so che è difficile, quasi impossibile. Ma mi sento di poter battere chiunque: adesso non mi pongo più limiti». L’unico, forse, è quello di andare a letto presto la sera.
marcopietro.lombardo@ilgiornale.it
(per gentile concessione dell’autore, fonte: Il Giornale.it)

di Stefano Olivari

Qualche partita fa osservavamo almeno diecimila Gazzette dello Sport messe sui seggiolini di un settore di San Siro, un paio d’ore prima dell’inizio dell’incontro. Tutte copie che rientrano nel calcolo della cosiddetta diffusione, insieme a quelle regalate sui treni, negli alberghi, nelle scuole, all’interno di ‘panini’ (ci sono provincie in cui insieme al Corsera o al quotidiano locale la Gazzetta viene regalata in automatico) e in altre situazioni. Ah sì, nel calcolo vanno inserite anche le copie realmente vendute dietro il pagamento del nostro euro: siamo rimasti gli ultimi a comprare i quotidiani sportivi? Quasi superfluo chiedersi perché la Rcs si dedichi a buttare via questa montagna di carta, gratuitamente. Risposta ovvia: gli spazi pubblicitari vengono venduti in base alla diffusione, accertata da terzi (come in questo caso) o più spesso dichiarata (è il caso dei due concorrenti, Corriere dello Sport e Tuttosport). Per dare un ordine di cifre, secondo la stima pubblicata da Prima Comunicazione, nello scorso novembre il primo quotidiano sportivo italiano ha diffuso 346mila copie al giorno di media: quindi con un lieve incremento (1.164 copie) rispetto al novembre 2007. Non esageriamo dicendo che solo quella sera e solo in quello stadio le Gazzette gratuite saranno state almeno 10mila (tutto il rettilineo di un anello): significa che quello sotto i nostri occhi era il 3% della diffusione dichiarata…in tutta Italia! E non possiamo parlare di tutto ciò che in contemporanea non abbiamo visto…Questo per dire che la situazione finanziaria dei media è molto più grave di come venga descritta: la pubblicità in caduta libera del 2008 è una pubblicità ancora ‘sostenuta’ da tutti noi che abbiamo interesse a dire che la gente legge, sia pure gratuitamente. Vorremmo dire che di questo beneficia il web, ma purtroppo non è vero: se qualche genio alla Brin-Page non inventa presto un meccanismo per far guadagnare i produttori di contenuti il futuro dell’informazione sarà fatto di tanti piccoli ayatollah autoreferenziali e semiprofessionisti (tipo noi, insomma) oppure di giornali letti da nessuno ma finanziati dal costruttore di turno in ottica ricattatoria.
stefano@indiscreto.it

di Stefano Olivari

Piccola guida per spiegare cosa è stato Gianni Corsolini per il basket italiano: appassionato allenatore durante la giovinezza bolognese, geniale dirigente creatore insieme alla famiglia Allievi del miracolo Cantù negli anni Sessanta (con un grande ritorno a fine Ottanta), uomo marketing e dirigente anche nella Udine degli Snaidero (anche qui con un ritorno), presidente di Lega, fra i primi in Italia ad avere dato una veste meno artigianale e mecenatistica alle sponsorizzazioni sportive, se la memoria non ci inganna titolare anche di una rubrica nello storico Superbasket di Aldo Giordani (di cui era amico) nonché padre del giornalista Luca. Un’esistenza nel basket italiano, visto da ogni angolazione, sintetizzata nell’agilissimo ‘Quasi sessant’anni della mia vita con gente del basket’ (Editore Alba Libri), che permette anche a chi è digiuno della storia di questo sport di comprendere la sua evoluzione orgnizzativa nel corso dei decenni. Mille personaggi, dai famosissimi agli sconosciuti, e un grande pregio: raccontare cosa c’è dietro al basket di alto livello, impossibile da sostenere solo con gli incassi al palazzetto. Un difetto del libro è forse quello di concentrarsi più sul racconto e la descrizione, come nell’ansia di non dimenticare nessuno in campo e fuori, che nell’analisi di un mondo che solo i Corsolini possono analizzare al tempo stesso con realismo ed apertura mentale. Alla fine si capisce che quello che vediamo ogni domenica anche nel 2009 è quasi un miracolo, rapportato alla penetrazione del basket nel sentire popolare: un miracolo costruito con il lavoro, la passione e l’amore per la gente del basket. Come la Cantù dei Marzorati e dei Recalcati giocatori, più luogo dell’anima che progetto replicabile ai giorni nostri.
stefano@indiscreto.it

di Stefano Olivari

L’idea malsana di annullare Italia-Brasile del 10 febbraio a Londra per il rifiuto brasiliano di estradare l’assassino Cesare Battisti è per fortuna durata solo il pomeriggio di ieri: utile a dare visibilità Ansa a mezze figure della politica e all’indecisionismo di Abete, giustamente chiamato da Lippi a dare un parere sulla questione (sarebbe il presidente federale, in fondo). Ricicliamo per una democrazia come quella brasiliana quanto scritto per Pechino 2008 e per i mille eventi sportivi che purtroppo si tengono in paesi governati da dittature: il possibile segnale etico dello sport dovrebbe essere accompagnato da misure più concrete, economiche o politiche, se no si rischia solo l’operazione di immagine. Che senso avrebbe avuto non mandare la Vezzali in Cina, con migliaia di aziende italiane che hanno esternalizzato lì la produzione? Che senso avrebbe rinunciare ad un’amichevole se non ci sono gli strumenti giuridici per imporre al Brasile di consegnare un pluriomicida? In questa occasione il dibattito non è mai realmente iniziato, per la sfortuna dei media che dovranno campare del travaglio del patriota Amauri, quindi Lippi non avrà bisogno del coraggio che ebbe nel 1976 Nicola Pietrangeli per sfidare praticamente tutto l’arco costituzionale e portare l’Italia di Coppa Davis in Cile. Ma l’idea miserabile di affidare l’immagine politica di un paese allo sport, rubando l’oro olimpico allo Scartezzini di turno, non è ancora morta: Battisti è in fondo un compagno che ha sbagliato, quindi la maggior parte dei giornalisti è portata anche inconsciamente a vedere la questione in una certa maniera, ma quando sorgerà un caso di segno opposto gli editoriali saranno senz’altro più virulenti ed indignati.
stefano@indiscreto.it