Archivio per febbraio, 2009

di Oscar Eleni

Ribellatevi sempre quando dopo una bella cena arriva in tavola l’ammazzacaffè, peggio se è una grappa stellina che diventa varechina quando a proporvela è il contadino che non la sa distillare. Questa settimana di basket, diciamo dalle giornate bolognesi a quelle dei tormenti europei, fino alla dolorosa riflessione sul caso Boniciolli, è andata più o meno così. Ci siamo illuminati d’immenso nelle partite di coppa Italia perché tutti, ma proprio tutti, ci hanno fatto credere che qualcosa è cambiato nel nostro basket: bravi i giocatori, bello e numeroso il pubblico, con festa finale per chi ha vinto in casa di chi ha perso senza doversi vergognare, eccellenti gli allenatori, decorosi persino gli arbitri nella disperata ricerca, non sempre riuscita, di una identità che non li facesse catalogare fra i vassalli dei potenti. Insomma si stava bene, eravamo pronti a brindare, ma ecco che arriva in tavola la varechina: prima la falange Tola, l’arbitro che non ti augureresti sempre di trovare, con la minaccia di sciopero sparata in faccia al presidente Meneghin che ancora non si era seduto per il primo consiglio, che ancora non capiva bene perché i sostenitori del Tola, dal Facchini tecnico fumante al Lamonica passi e accompagnate, passando dal Cicoria viperino, volessero una guerra santa per l’autonomia, pretendendo comunque che a pagare siano sempre gli stessi: Federazione e Società. Poi ci hanno portato altra grappa stellina per gli esami di Eurolega dove tre grandi favorite per la finale, Mosca, Taugres e Panathinaikos, hanno sistemato per bene le tre italiane rimaste in gioco. Scoramento generale, anche se Siena qualche scusa la poteva avere, ma adesso rischia tantissimo negli incroci delle ultime otto; anche se Milano le scuse le trova comunque persino quando prende Mo Taylor dalla naftalina e non si chiede, come farebbe l’Armani furioso con l’assessore, perché i Teletovic o i Barac vanno altrove; anche se Roma si salva sempre dando la colpa a Repesa, in questo caso per essersene andato. Europa crudele, ma, come dicono al bar, l’Europa è diversa, l’euro, come vi direbbe il vostro pizzicagnolo di sfiducia che raddoppia sul prosciutto, è un‘altra cosa. Chiedete pure a quelli del calcio che se va bene ne salveranno ancora una oltre all’Udinese. Chiedete al Charlie Recalcati che sull’Europeo deve costruire il futuro per tutti, amici e nemici. Per finire il tossico peggiore. Caso Boniciolli. Confusione nella ritirata, come se fosse la prima volta. Fare un dossier sulle multe incassate. Tutte per insulti. Non soltanto agli arbitri. Il tifoso è così. Si arrabbia se non è lui a mandarti a quel paese o in ritiro. Guai divorziare per incompatibilità di carattere o ambientale. Basket denudato dalla solita mossa “ brillante” del Sabatini virtussino? Certo, ma forse era ora e per favore registratevi i cori monotoni e stonati di ogni partita. Se sentite calore intorno a voi vuol dire che sedete su una stufa a kerosene. Se passerà la nuttata domani avremo basket di campionato e a mezzogiorno vedremo in TV Cantù, sul campo di Teramo, sorella nello stupire chi non crede al lavoro, alle scelte andando per campi e non per ristoranti, prima dell’innesto del Patricio Prato hombre vertical, un tipo di giocatore che è bello avere nella tua squadra, peccato che Rieti in questo modo ci faccia sapere di essere ormai in liquidazione.
Oscar Eleni

di Stefano Olivari
Molti sono convinti che scommettere ‘live’ offra maggiori possibilità di vittoria. L’idea è che se stasera la Juventus, data a 1,55 (pari a 3,60, Napoli a 6,50), dovesse faticare, la sua quota si alzerebbe molto. Ma ci sono due piccoli problemi: per farci vincere la Juve dovrebbe lei per prima vincere, ma soprattutto il cambiamento in diretta delle quote quasi mai conferma l’aggio del banco. Possiamo verificarlo empiricamente: il vantaggio del bookmaker al minuto zero (nel caso sopra citato 7,5%) è quasi sempre inferiore a quello con le quote live. L’ipotesi è che scommetta in diretta chi abbia un’idea forte sul risultato, formatasi guardando la partita, e che quindi non stia a sottilizzare. E’ quindi realistico che sullo zero a zero al quarto d’ora della ripresa la Juve salga a 2,00 (per il banco probabilità del 50%), il pari a 3,30 (30,3%) ed il Napoli a 3,40 (29,4%). Chi crede nei bianconeri si illude che sia il momento per giocare, ma a livello statistico il vantaggio del banco è salito al 9,7%. Tornando sulla Terra, ripartiamo dal nostro meno 54,4 euro. Oggi occhio al Borussia Dortmund in casa contro l’Hoffenheim: per caratteristiche tecniche sono due squadre da Over (almeno 2,5 gol), quindi i nostri 10 euro li puntiamo così a 1,60. In Scozia il Celtic capolista non può avere pietà del St.Mirren: la vittoria a 1,20 è giocabile. Da considerarsi ‘value’ anche un successo tutt’altro che sicuro, quello dell’Atalanta domani sul Chievo a 1,75. Meglio pensarci prima che decidere in diretta.
stefano@indiscreto.it
(Pubblicato sul Giornale di oggi)

di Stefano Olivari

Domani a Newcastle (Irlanda del Nord) si terrà il congresso numero 123 della storia dell’International Board, cioé l’organismo preposto alla modifica delle regole per il calcio di tutto il mondo. Da lunedì ci sarà tempo e modo di commentare l’attualità e l’applicabilità delle sue decisioni, tifando fin da ora contro l’overdose di arbitri (i due assistenti di area di rigore, ma si parla anche di altro), di discrezionalità (il cartellino arancione, cioé l’espulsione a tempo, sarebbe la gioia dei bar di tutto il globo) e di confusione (le quattro sostituzioni in caso di supplementari). Il tutto mentre si rifiuta a priori la tecnologia anche in quelle situazioni in cui la sua utilità sarebbe massima. Una cosa è sicura: l’aumento del numero di giudici di gara andrà a discapito di quel calcio minore che la FIFA dice di voler tutelare contro le spese eccessive (cronometri, telecamere, eccetera), perché ad assistere l’arbitro centrale nelle situazioni da area di rigore non saranno guardalinee ammaestrati ma due arbitri veri. Che verosimilmente non saranno presi dalla strada, ma in ogni nazione dalle categorie inferiori: e chi se ne importa del livello degli arbitraggi in serie D, l’importante è non spendere soldi per i cronometristi (che vengono pagati anche negli sport alla canna del gas, in ogni serie). Una soluzione, soprattutto a livello internazionale (ne ha parlato Platini), sarebbe quella di reinserire nei ranghi gli over 45, che nel nuovo ruolo non dovrebbero correre come l’arbitro vero. Gli arbitri con la pancia, ecco il futuro già visto.

di Flavio Suardi

C’erano anni in cui nella Nba, ma non solo, esisteva la necessità/moda di portare degli occhiali protettivi. Quelli “alla Jabbar”, per intenderci. Non bisogna però confondere questo tipo di attrezzo con quelli esibiti ad esempio, da George Mikan negli anni ’50 e Kurt Rambis negli anni ’80. Si trattava, in questi casi, di occhiali da vista, esattamente come quelli che portava Gianfranco Pieri in maglia Simmenthal Milano. Quelli indossati da Jabbar, Moses Malone e James Worthy (che compie proprio oggi 48 anni), servivano per proteggere il viso dai contatti violenti sotto canestro, ma anche le lenti a contatto, per lo più rigide a quel tempo, applicate al posto degli occhiali. Questo genere di accessorio, diffusissimo all’epoca dei Lakers dello showtime, era utilizzato prevalentemente dai lunghi, ovvero da coloro che avevano più probabilità di subire colpi violenti. Come dimenticare Moses Malone? A questo proposito vale la pena di ricordare che lo stesso Malone aveva l’abitudine di alzare gli occhiali sulla fronte mentre eseguiva i tiri liberi, per abbassarli solo dopo l’esecuzione del secondo personale. Per qualche periodo li ha usati anche Hakeem Olajuwon, ma quel genere di protezione aveva degli evidenti problemi di appannamento, dati dalla mancanza di aperture che consentissero la circolazione dell’aria. Dopo il vero e proprio boom di quegli anni, l’uso degli occhiali protettivi andò progressivamente diminuendo: li portava Horace Grant, con il vezzo di utilizzarli con colorazioni simili a quelli della divisa della sua squadra. Bianchi o rossi a Chicago, blu a Orlando, con una banda gialla sul frontale all’epoca dei Lakers. Piccola curiosità: anche il lungo Thurl Bailey li usava ai tempi degli Utah Jazz, ma quando è arrivato in Italia (1995-97 Cantù, poi un anno a Milano) non li ha più utilizzati.
(in esclusiva per Indiscreto)

di Alec Cordolcini

1. Vincono le riserve. Kennedy Bakircioglu, Kenneth Vermeer, Leonardo. Vince soprattutto Marco van Basten, prima in campo e poi davanti ai microfoni, quando dichiara la netta superiorità della Fiorentina sul suo Ajax. Una squadra che ha confermato tutti i pregi e i difetti già emersi lungo tutta la stagione di Eredivisie: difesa alta, molto fragile se attaccata in velocità e ancora carente dal punto di vista degli automatismi; centrocampo di quantità privo di un autentico leader; reparto offensivo capace di colpire in qualsiasi momento grazie alla qualità degli interpreti, Luis Suarez su tutti. La linea che separa il genio dal cialtrone è spesso sottile quando un allenatore sperimenta molto. Quando allenava l’Olanda Van Basten venne tacciato di essere un apprendista stregone che si divertiva a mischiare gli ingredienti a caso. Critiche che lo hanno seguito, spesso a ragione (ricordiamo Siem de Jong punta centrale, Sulejmani regista, la maglia di terzino sinistro che sembrava estratta a sorte tra VertonghenVermaelenSchilderEmanuelson), anche in questo suo ritorno ad Amsterdam. L’ironia della sorte ha voluto che proprio nei due incontri tra i più importanti dell’intera stagione Van Basten abbia indovinato tutto.
2. A Firenze due scelte hanno fatto la differenza: posizionare Emanuelson in marcatura quasi a uomo su Melo, riducendo ai minimi termini l’apporto del giocatore alla manovra (una mossa non ripetuta al ritorno, dove infatti il brasiliano è stato uno dei migliori in campo), e schierare Bakircioglu attaccante destro nel tridente, restituendo Suarez ad una posizione più congeniale al centro del reparto offensivo. Pur non essendo un’ala, il giocatore svedese di origini assire (che molti in Italia si ostinano a chiamare Kennedy, ma sarebbe come dire che la Fiorentina schiera in attacco Adrian) ha vissuto i momenti migliori della sua carriera (al Twente) proprio in quella posizione, acquisendo tempi e movimenti, anche in fase di ripiegamento, che il talento anarchico di Suarez fatica a interiorizzare. E sarebbe anche un peccato se lo facesse, dal momento che l’uruguaiano ha dimostrato nei 180 minuti di Uefa come in una posizione più centrale, prima ma anche seconda punta, sia in grado di impegnare e tenere in apprensione un’intera difesa.
3. Ad Amsterdam Van Basten ha scelto di coprirsi. Gli è andata bene con il problema fisico di Stekelenburg (così come all’andata con l’infortunio di Cvitanich, altrimenti niente Bakircioglu e Suarez a destra…), venendo ripagato dall’ottima performance di Vermeer, per il primo anno davvero convincente fino in fondo. E’ tutta farina del suo sacco invece l’inserimento di Leonardo, uno dei pochi artisti del dribbling rimasti e uno di quei giocatori il cui rendimento da subentrato risulta essere spesso superiore rispetto ad un impiego dal primo minuto. Devastante in campo aperto, qualità tecniche indiscutibili ma anche una fragilità fisica impressionante (alla Robben, per capirci), Leonardo è ideale per un impiego di 30-40 minuti finalizzato a scardinare le difese più ostiche. Questo Van Basten l’ha pienamente capito.
4. Capitolo delusioni. Miralem Sulejmani in primis, autore di due prestazioni molto fumose. “Embè, tutto qui?”, ci ha scritto un collega olandese riguardo a Riccardo Montolivo. Ecco, Sulejmani è la stessa cosa: grande talento con il brutto difetto di scomparire nei match che contano, specialmente in Europa. Basterebbe avere la personalità mostrata da Vurnon Anita all’andata; senza strafare, il centrocampista ajacide ha sfoderato una prestazione di esperienza, pur essendo un classe 1989. Delude ma non stupisce la limitatezza di Presas Oleguer, scarto del Barcellona arrivato a ingrossare le fila dei bidoni spagnoli (Roger, Urzaiz, Luque) transitati per l’Amsterdam Arena negli ultimi anni. Lui è un no global, il suo calcio un no futbal. Anche il connazionale Gabri ha dei limiti, ai quali però sopperisce con una straordinaria quantità, tanto che a volte (due settimane fa ad Arnhem, ad esempio) è capitato di vederlo uscire dal campo reggendosi in piedi a fatica per quanto aveva corso. Promuoviamo infine, senza lode, anche Rasmus Lindgren e Gregory van der Wiel. L’Europa è l’insegnante migliore per proseguire la propria formazione.
5. Agli ottavi di finale non ci sarà il derby olandese. Una punizione da trenta metri di Hatem Ben Arfa, con tanto di doppio palo, e i calci di rigore hanno permesso all’Olympique Marsiglia di eliminare il Twente. Un’occasione persa per gli uomini di McClaren, assolutamente non inferiori ai più quotati francesi. Netto invece il divario tra Amburgo e Nec Nijmegen. La bella favola della compagine guidata da Mario Been si è conclusa con una doppia sconfitta, ma l’avventura è stata indubbiamente positiva. Con tutta probabilità passeranno anni prima che questa possa ripetersi. A fine stagione infatti Been andrà al Feyenoord, mentre la dirigenza del Nec ha annunciato le difficoltà finanziarie del club, invitando i tifosi a prepararsi per “un lungo inverno”. Assente, causa limiti propri, un assiduo frequentatore dei salotti continentali come il Psv Eindhoven, adesso l’Ajax in Europa è sempre più solo.
(in esclusiva per Indiscreto)

di Stefano Olivari

Ricordo fiorentino di Zoleddu, quell’Andrej Kanchelskis che arrivò in Italia nel gennaio 1997 come uno dei grandi colpi di Cecchi Gori e ripartì un anno e mezzo dopo per ritrovare (solo in minima parte) se stesso nei Rangers. L’ala destra russa (ma di origini ucraine), era uno straordinario atleta che si era formato nella sua Kirovograd prima di passare per la Dinamo Kiev di Lobanovski e conoscere i suoi giorni di gloria nel primo Manchester United vincente di Alex Ferguson: quello di Cantona, di Mark Hughes, di Ince, di un giovanissimo Giggs e con in panchina ragazzini come i Neville, Scholes, Butt e ovviamente Beckham. Poi il litigio con Ferguson, la cessione all’Everton di Joe Royle ed il precoce declino fra un infortunio e l’altro. In viola, nella squadra di Toldo, Rui Costa e Batistuta (come allenatori ebbe per sei mesi Ranieri e per un anno Malesani), fece cose discrete nelle rare volte in cui fu al massimo della forma, ma il meglio l’aveva già dato. Varie fermate di fine carriera, con chiusura in sordina due stagioni fa, a 38 anni, nel Krylia Sovetov di Samara. Carriera dirigenziale iniziata praticamente subito, come direttore generale del Nosta di Novotroitsk, squadra di Prima Divisione (cioé serie B) russa: non è stato necessario un grande lavoro di ricerca, perché qualche settimana fa le agenzie riportavano sue dichiarazioni contro il doppio incarico di Hiddink. Una posizione forse non del tutto disinteressata, se è vero quello che abbiamo letto oggi: cioè dell’ipotesi Advocaat (ora sulla panchina dello Zenit San Pietroburgo) per la nazionale russa nel caso Hiddink decida di concentrarsi solo sul Chelsea. Con Advocaat, suo allenatore per tre anni a Glasgow, Kanchelskis ha un grandissimo rapporto e inoltre l’ex ala non ha mai fatto mistero di voler lavorare per la federazione a Mosca. Per il momento è comunque nell’oblast di Orenburg.

di Stefano Olivari

Per deformazione mentale siamo sempre rimasti più impressionati da chi non guarda le grandi partite che da chi le guarda. Così non ci ha stupito tanto che l’evento televisivo più visto in Italia nel 2008 sia stato Italia-Francia dell’Europeo, con 23.491.000 spettatori di media (share del 74,11%), quanto che 36 milioni e mezzo di connazionali non abbiano seguito la sfida. Questo ed altri pensieri profondi sono sorti alla lettura di ‘Un anno di Rai’, il libretto riassuntivo del 2008 che l’emittente di stato ha pubblicato di recente. Secondo classificato, a distanza siderale, il ‘W Radio 2’ televisivo di Fiorello con 10milioni e 600 mila spettatori di media, terzo il messaggio di Napolitano a reti unificate (non che qualcuno lo abbia realmente seguito, ma è il classico momento in cui nel paese si tiene accesa la tivù pur di non parlare con i parenti). Il secondo evento sportivo più visto è stato il Gran Premio di Formula Uno del Brasile, con 9.892.000 spettatori (vista l’ora, nemmeno c’era il doping dell’abbiocco post cannelloni e brasato), mentre fuori dalle grandi manifestazioni, nel calcio ‘normale’, medaglia d’oro a Italia-Montenegro dello scorso ottobre con quasi 9 milioni. Per quanto riguarda il calcio di club il record 2008 è invece dello Juve-Inter di Coppa Italia con poco meno di 8 milioni. Dati che confermano una banalità: il bacino d’utenza potenziale del calcio di club è di poco superiore ai 10 milioni e per la tivù in chiaro il prodotto costa troppo. E’ impressionante vedere che l’Eredità, un programma che costa pochissimo, trasmesso ogni giorno, faccia più ascolto dello Juve-Inter sopra citato. Dal punto di vista commerciale Carlo Conti nella tivù in chiaro vale insomma venti volte Del Piero e Ibrahimovic messi insieme, considerando la serializzazione. Tolto il grande evento, a cinque italiani su sei del calcio frega pochissimo o niente: con buona pace della società di indagini di mercato che dirama bollettini della vittoria, forse anche perchè consulente della Lega e di certi club.
stefano@indiscreto.it

di Stefano Olivari

Ricordi bresciani (1994-95) per Enrico Frera, quel Danut Lupu che Mircea Lucescu aveva già allenato ed apprezzato ai tempi della Dinamo Bucarest. Classe 1967, Centrocampista di buonissimo talento (in un’intervista, che poi lo avrebbe fatto litigare con Hagi, Lucescu sostenne che Lupu fosse il giocatore rumeno con maggior classe della sua generazione), di buon fisico e di testa variabile, Lupu fece anche parte della Romania di Jenei a Italia 1990, giocando qualche minuto a Napoli contro l’Argentina e soprattutto i minuti finali e i tempi supplementari del drammatico ottavo di finale di Genova contro l’Eire: zero a zero tatticissimo e rigori, con Lupu che realizzò il suo battendo Bonner e con l’errore decisivo del suo compagno Timofte. Poi il trasferimento al Panathinaikos, in mezzo a vicende extracalcistiche (fu anche arrestato, in quanto complice di una banda di malavitosi) ed un rapido declino, la chance bresciana sfruttata male (si presentò da Lucescu in sovrappeso di 15 chili) ed il ritorno in patria, prima al Rapid e poi di nuovo alla Dinamo Bucarest. Lupu ha chiuso la carriera in Israele ad inizio millennio ed adesso vive in Romania seguendo varie attività e dicendo la sua come opinionista calcistico.
stefano@indiscreto.it
P.S. Stiamo perdendo il filo delle mille richieste, vi preghiamo di radunarle tutte nei commenti rispettando il criterio principe: almeno un minuto in serie A in tempi di tivù a colori…

di Stefano Olivari

L’orrore, l’orrore…difficile commentare meglio del colonnello Kurtz la sfilata di potenti, ex potenti, giornalisti in pseudo-carriera e personaggi di rappresentanza che hanno trasformato il funerale di Candido Cannavò in una grottesca esibizione di se stessi. Di quello che secondo noi Cannavò ha rappresentato per il giornalismo abbiamo già scritto, magari dando un dispiacere a chi usa le stesse logiche (grandi club, grandi uomini, grande Ferrari, imprese epiche al Giro), ma l’uomo è ovviamente un’altra cosa. Parliamo con cognizione di causa, dal momento che conosciamo molti ‘anonimi’ che a quei funerali hanno partecipato senza l’ossessione del farsi vedere e solo per essere vicini ad una persona che hanno apprezzato. Se per Abete, Petrucci, Letizia Moratti e pochi altri esserci poteva essere un dovere istituzionale, troppi altri (si possono tranquillamente vedere nelle foto) hanno fatto solo una macabra passerella: atleti in uniforme, direttori ridotti alla semiclandestinità, star televisive, dirigenti editoriali, professionisti del cordoglio, altra gente con la coscienza o la presunzione di essere importante. Con la pennellata trash della webcam alla Grande Fratello che dava in diretta su http://www.gazzetta.it/ l’arrivo di famosi e non famosi nella camera ardente. Uno spettacolo tremendo, in alcuni casi una sfilata ridicola. Però adesso tutti sanno chi c’era e chi non c’era.
stefano@indiscreto.it

di Stefano Olivari
Il 2010, scadenza di molti contratti di superstelle NBA (primissimo fra tutti LeBron James, secondo Dwyane Wade, con i terzi che non scherzano), è l’anno di cui tutti gli appassionati parlano, ma la vera battaglia per delineare il futuro della lega nei prossimi decenni si combatterà l’estate successiva: è nel 2011 infatti che scadrà il contratto collettivo dei giocatori e che la NBA cercherà di mettere mano a regole che allo stato attuale impediscono di strapagare le superstar ma al tempo stesso quasi costringono a farsi strozzare dai role player con contratti pluriennali: Ben Wallace 14 milioni e mezzo di dollari a stagione, l’attuale Leandrinho Barbosa a 6,1, Jason Kapono circa per la stessa cifra, eccetera. Questo e molti temi interessanti vengono affrontati in un’intervista a David Falk, storico agente di Michael Jordan (adesso cura gli interessi, fra gli altri, di Mike Bibby, Mutombo, Brand, Coach K), sul New York Times di domenica: invitiamo ad andare sul sito del giornale a leggerla, così con la ristrutturiamo furbescamente facendola passare per nostra. Possiamo però dire che dall’intervista si evince che secondo Falk il commissioner Stern ha già nella mente una strategia ben precisa, volta ad ottenere i seguenti risultati: a) Salary cap vero, riducendo al minimo le eccezioni; b) fra le eccezioni, assolutamente abbattere la mid-level cap exception (esempio di mid-level exception è l’ingaggio di Kapono da parte dei Raptors, a cui comunque l’ex UCLA non ha puntato contro una pistola); c) Contratti più corti; d) Limite di età più alto per entrare nella lega. Nel lanciare il suo libro, The Bald Truth, Falk ha insistito molto sul quarto punto sostenendo una tesi non nuova ma comunque interessante: cioé che qualche anno in più nella NCAA (o in un’Europa meno dura e competitiva di quella trovata da Brandon Jennings) darebbe alla NBA giocatori tecnicamente migliori, più maturi come persone (fra un 21enne e un 19enne c’è un oceano di differenza), e soprattutto con una pubblicità gratuita di tre o quattro anni da parte della NCAA che farebbe entrare nella NBA con rullo di tamburi anche giocatori di livello medio. Siccome non tutti i diciottenni hanno la testa dei Kobe, LeBron o Garnett diciottenni, è quello che si augurano tutti tranne i freshman NCAA delle prossime stagioni e tranne ovviamente i colleghi di Falk, che non è un semplice agente e che all’apice del suo potere è arrivato ad essere una specie di Gea incarnata in una persona sola: con almeno un giocatore chiave e qualche comprimario in ogni squadra, piazzato secondo le logiche dello spettacolo (io ti do Bonolis ma ti prendi anche Piripicchio). E pensare che abbiamo conosciuto di persona il dirigente di una società calcistica italiana che asseriva di avere, nel suo nebuloso periodo americano, ‘inventato Michael Jordan a livello di marketing’. Non era Falk, ovviamente.
stefano@indiscreto.it