Archivio per gennaio 23rd, 2009

Scrivere di calcio per i tifosi è mestiere facilissimo, scriverne per gli appassionati è invece quasi uno sport estremo: un campione di questa disciplina è Alec Cordolcini, non lo diciamo noi ma i lettori del Guerin Sportivo e di Indiscreto (quando si è preso una pausa, per i mille impegni, qualcuno ci ha riservato parole poco simpatiche). Non ribadiamo quindi il concetto, anche perché saremmo di parte e rischieremmo la classica recensione all’italiana: quella in cui il giornalista recensisce il libro dell’amico sperando in futuro che questi ricambi il favore per la sua ‘opera’. Nessuno sbrodolamento: Cordolcini è esattamente l’Alec di Radio Olanda e di Calcio Totale, quindi a voi il giudizio.
Più concretamente veniamo al contenuto di ‘La Rivoluzione dei Tulipani’, da poco uscito per Bradipo Libri: la storia di un secolo di calcio olandese, attraverso le vite dei suoi protagonisti. Pim Mulier, fondatore nel 1879 della prima squadra d’Olanda e geniale organizzatore-evangelizzatore. Henri Denis, la prima vera stella: uno dei migliori difensori al mondo negli anni Venti, protagonista in tre Olimpiadi e ad Amsterdam 1928 lettore del giuramento olimpico. Il grande bomber Bep Bakhuys (in Olanda ancora oggi i gol di testa in tuffo vengono definiti gol alla Bakhuys), simbolo del passaggio dal dilettantismo ipocrita al professionismo. Kick Wilstra, il più forte di tutti anche perché personaggio di fantasia: fumetto popolarissimo, nato dalla sintesi delle caratteristiche di diversi campioni. Faas Wilkes, fenomenale dribblatore anche con la maglia dell’Inter di Lorenzi e Nyers. Il generale Rinus Michels, prima campione in campo e poi inventore del calcio totale e dell’idea che il mondo ha del calcio olandese. Coen Moulijn, una vita per il Feyenoord, con lui in campo prima squadra olandese a trionfare in Europa e nel mondo anticipando gli eterni rivali dell’Ajax. La personalità di Jan Jongbloed, l’immensità assoluta di Johan Cruijff, la durezza di Wim van Hanegem, l’unicità di tutta la generazione della Grande Olanda (Neeskens, Krol, Rep…), i campioni degli anni Ottanta dalle vette di Van BastenGullitRijkaard in giù, fino ad arrivare ai protagonisti dei giorni nostri.
Ogni capitolo una vita, a volte difficile ma sempre interessante, in pratica in ogni capitolo un romanzo. Con la statistica ridotta opportunamente al minimo e la Storia con la Esse maiuscola a fare da contorno alle storie. Impressiona rendersi conto di quante cose non sappiamo su personaggi di cui abbiamo parlato un milione di volte e di sicuro è un delitto leggere questo libro velocemente, come se la velocità di lettura (‘si legge in un fiato’ e tristezze del genere, pensando di fare un complimento) fosse un valore. Invece ogni capitolo soddisfa molte curiosità e ne fa nascere tante altre, che ci fanno sperare in prossimi libri dello stesso autore e capire perché molti di noi hanno tifato Olanda senza sapere bene perchè: tutti gli stati sono entità politiche e geografiche, ma sono pochissimi quelli che rappresentano un’Idea. La Rivoluzione dei Tulipani va letto lentamente perchè dentro c’è molto calcio ma soprattutto molta vita: cultura olandese, interiorizzata sul posto, ed il respiro ampio di chi guarda oltre l’orticello.
Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it

La memoria storica non esiste, tantomeno nel calcio dove giustamente conta solo il presente. E il Berlusconi intervistato dal QS ha ribadito il suo condivisibile pensiero di qualche anno fa, secondo cui l’uomo medio ha l’intelligenza, il senso critico ed i meccanismi mentali di un ragazzino di dodici anni. Oggi lo ha detto con altre parole, dicendosi felice per ‘avere rinunciato’ ai 120 milioni offerti dal Manchester City per Kakà, con tanto di esaltazione delle bandiere e ricordi rossoneri d’infanzia (interista, stando al suo ex giocatore nell’Edilnord Giovanni Ticozzi, e davvero milanista secondo quanto ci risulta: al di là del tentativo realmente fatto di comprare l’Inter da Fraizzoli, in due diversi momenti). Pensavamo avesse detto di no Kakà, soprattutto lo pensa Kakà, e che il Milan lo avesse già stravenduto con Adriano Galliani che diceva a tutti di avere in cassaforte l’offerta ufficiale degli inglesi. Con effetti comici, visto che lo schema del mercenario questa volta era stato applicato in maniera goffa e senza fare i conti con la volontà del presunto mercenario. Fra un omaggio al popolo bue e l’altro (ieri sera inspiegabile spottone del Tg5 su un’iniziativa benefica a Milanello, con protagonista ovviamente Kakà: sempre meglio di ‘Gusto’, comunque), adesso il nuovo nemico della casa è AS. Che non sarà credibile come la Gazzetta e Tuttosport ma che ogni giorno si ‘inventa’ una dichiarazione in direzione Real di qualcuno: Emerson, Ancelotti, oggi lo stesso figlio dell’ingegner Bosco. Che a leggere il pezzo di AS non dice poi proprio nulla, a parte che il Real è un grande club: la notizia, ma a ben vedere è una non notizia, è che sotto casa sia stato intercettato dall’inviato di un quotidiano spagnolo e non da quelli di uno italiano.
Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it

Alcune reazioni agli articoli sulle parole che Mourinho avrebbe detto nello spogliatoio nel post-Bergamo sono illuminanti riguardo al meccanismo mentale che ormai si è impadronito di noi. In sintesi: tu dici o scrivi queste cose perchè sei ‘amico di’. Laura Alari rivela un retroscena sull’Inter? Ovvio, è amica di Mancini. Carlo Pizzigoni fa un’osservazione di segno opposto? Ovvio, ha scritto un libro su Mourinho. Quello che faticosamente stiamo cercando di dire è che la buona fede c’è o non c’è, ma in nessun caso può essere certificata. Per la semplice ragione che il lavoro giornalistico, anche uscendo dal discorso marchette, è basato su un rapporto di scambio: ‘Io ti passo delle informazioni per i tuoi lettori, ma come minimo tu non mi attacchi’, nella migliore delle ipotesi. Poi la maggioranza dei cosiddetti cronisti fa copia & incolla con l’Ansa, oppure stenografa le dichiarazioni televisive (imbarazzanti le scene davanti ai televisori della sala stampa, un vero spot contro l’acquisto dei giornali), aggiunge un aggettivo alle veline degli uffici stampa: tutta gente che vive tranquilla, senza rischiare niente, che poi magari ti prende in giro perchè la grande società gli ha concesso un’intervista esclusiva su appuntamento e sul nulla. Caso personale, con nomi e cognomi. Molti anni fa abbiamo creato e gestito i contenuti del sito di Gigi Buffon, con interviste esclusive, foto, notizie, eccetera (le solite cose, niente di geniale), poi lui e la Puma si sono affidati ad altri e la storia è finita lì. Adesso noi pensiamo che Buffon sia il miglior portiere del mondo, sia tecnicamente che per la sicurezza che trasmette ai compagni di reparto: lo diciamo perchè grazie a lui abbiamo per anni guadagnato tanti soldi? Mettiamo invece che noi si preferisca Iker Casillas: campione dello stesso rango, la scelta può essere discussa ma non stiamo parlando di pianeti diversi. Diremmo così per livore, dopo aver perso un contratto importante? Conclusione: anche nel giornalismo l’onestà non può essere certificata (in questo senso illuminante lo scazzo SantoroAnnunziata di settimana sorsa), mentre con la disonestà esistono criteri più oggettivi.
Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it

di Dario Spagnoli

Al rientro in Italia, andammo ad abitare al nr. 251 di via Nonantolana, nella prima periferia di Modena. Il rione non era dei più signorili, ma si stava bene lo stesso; la mia casa era circondata da prati verdi che, per noi bambini, rappresentavano un grande sfogo, fornendoci innumerevoli occasioni di gioco. La stessa cosa oggi sarebbe impossibile, visto che tutto quel verde ha ceduto il posto ad enormi palazzoni. Ho cominciato a tirare i primi calci, come tutti i bambini, nel campetto dell’oratorio di don Sergio Mantovani, passato poi agli onori della cronaca per essere diventato il cappellano dei piloti di Formula 1. Parrocchia di Santa Caterina alla Crocetta, gran cuore proletario della Modena del tempo. Era circa la metà degli anni ‘60 e tutti i santi giorni chiunque avesse voluto trovarmi, poteva venire a cercarmi, senza possibilità di errore, in quel campetto.
La mia prima divisa da calciatore me la regalò mio fratello, avevo poco meno di 9 anni: si trattò, inevitabilmente, della divisa della Juventus, perché lui sapeva che io impazzivo per Sivori. Ero infatti diventato juventino giocando con Roberto e Paolo, due bambini più grandi di me, nel cortile di casa; tutti e due avevano la maglietta bianconera e quando facevano le partitelle uno diceva:
«Io sono Sivori», e l’altro rispondeva:
«Io sono Charles».
Io, inconsciamente propendendo per Roberto, cominciai ad avere una grande ammirazione per il fuoriclasse argentino, che mi rimase nel tempo. Cercavo di copiarne i gesti e le movenze, come i calzettoni portati alle caviglie. Naturalmente, crescendo capii benissimo che non avevo le caratteristiche e soprattutto la qualità del grande Omar. Io ero gracilino, a quel tempo, e avevo molta paura dell’avversario, specialmente quando era più grande di me.
All’età di 10 anni entrai a fare parte di una squadra vera, con tanto di maglia ufficiale, tuta e partite vere; eravamo senz’altro i più scarsi del girone, prendevamo sempre delle sonore legnate, ma per me andava bene lo stesso. La squadra si chiamava Messori, nome che fino allora non avevo mai sentito nominare ma che mi diventò incredibilmente familiare, pur non dicendomi nulla. La divisa era: maglia verde con ampia striscia bianca orizzontale all’altezza del petto, calzoncini bianchi, calzettoni a piacere. Il dirigente-allenatore-tuttofare si chiamava Remo Ricci, un gran simpaticone, un amico più che altro, anche se era abbondantemente più grande di me. Ci si vedeva ogni giorno perché, oltre a essere vicini di casa, si finì col frequentare, con l’andare del tempo, lo stesso ritrovo, il glorioso bar Bettolo.
Durante il periodo estivo, terminate le scuole, il nostro passatempo era quello di andare a fare il bagno alla piscina comunale, ma i soldi non abbondavano e allora si cercava di escogitare qualche sistema per raggranellare le 200 lire che ci avrebbero permesso l’ingresso in piscina. Andavamo alle montagne di polvere nera, scarti di lavorazione che le fonderie vicino casa accumulavano, e lì in mezzo c’erano i pezzi di scarto dell’acciaio, la ghisa che noi raccattavamo e rivendevamo al solito rigattiere. Partivamo al mattino e fino a mezzogiorno ci immerdavamo di nero fino alla punta dei capelli, e quando trovavamo un pezzo grosso per noi era come aver trovato una pepita d’oro. Poi facevamo l’inventario del “bottino”, la stima e, al pomeriggio, appena avuti i soldi, via in piscina fino a sera, immersi in vasca.
All’incrocio tra via Nonantolana e via Crocetta teneva bottega il mitico barbiere Pippo, un signore di mezza età che agli occhi di noi ragazzini sembrava già vecchio. Era un accanito sostenitore juventino e avevamo anche avuto, io e lui, uno scontro a carattere sportivo perché all’epoca io ce l’avevo con Edmondo Fabbri, allenatore della nazionale, che aveva deciso di escludere gli oriundi. E questo avrebbe significato per me non veder più Sivori con la maglia azzurra. Lui diceva che era giusto, io invece sostenevo il contrario. Pippo era uno di quei barbieri vecchia scuola che era venuto su dalla gavetta, senza frequentare alcuna di quelle scuole professionali di taglio e senza nessun tipo di aggiornamento, e così tutte le volte che andavamo a tagliarci i capelli, ci votavamo a qualche santo, nella speranza che potesse riuscire a farci un buon taglio. Gli dicevamo: «Pippo, mi raccomando, mi faccia un taglio alla moda». E lui ti rispondeva alla maniera canonica: «A gh peins me’: a fagh un lavursinen muderen. Isamma, ona cosa giosta!». E immancabilmente si usciva fuori con il solito taglio. Pippo aveva anche un’altra particolarità. Quando qualcuno gli parlava, aveva l’abitudine di sottolineare il discorso del suo interlocutore con un caratteristico: «Ostia, boun boun!». Cosicché, qualsiasi cosa tu gli dicevi lui ti rispondeva con quell’intercalare. Si verificavano dialoghi del tipo: «Pippo, ho comperato una bicicletta nuova che è uno spettacolo». E lui: «Ostia, boun boun!». Oppure: «Pippo, ieri sono stato a fare un giro in montagna». E lui, di rimando: «Ostia, boun boun!». Non so se sia una leggenda metropolitana o sia accaduto veramente, fatto sta che un giorno un amico entro nel suo salone e, salutando mestamente, gli riferisce di essere di ritorno dal funerale di un suo amico. E lui, senza scomporsi: «Ostia, boun boun!» (2-continua)
Dario Spagnoli
(per gentile concessione dell’autore, fonte: La mia Akragas – Quando i pali erano quadrati). Chi fosse interessato all’opera completa è pregato di contattare la casa editrice (Il Fiorino) o direttamente l’autore:
dariospagnoli@libero.it.