Archive for the ‘Destinazione Palalido’ Category

Il più forte a non avere mai giocato nella NBA: Chuck Jura è stato questo ma anche molto più, fino a diventare l’icona di una generazione di italiani che si è innamorata del basket grazie ai campioni ‘free & wild’ degli anni Settanta. Ragazzi per i quali la vittoria era importante ma non tutto, ragazzi dei quali si imitavano i movimenti e la camminata anche senza vederli ogni minuto in televisione. Ragazzi come Charles ‘Chuck’ Jura, il figlio dello sceriffo diventato sceriffo solo nel basket. Classe 1950, stella dell’università di Nebraska, nel 1972 Jura arrivò in Italia diventando il trascinatore di quella che viene ricordata come ‘l’altra Milano’ (rispetto all’Olimpia, l’attuale Armani Jeans) ed il simbolo del decennio del boom della nostra pallacanestro. Pivot mancino di due metri e sei centimetri, tecnica e intelligenza offensiva straordinarie abbinate ad una velocità da guardia, fu voluto dal compianto Riccardo Sales e per sette anni diede spettacolo a Milano sotto la guida anche del professor Dido Guerrieri e di Dante Gurioli. Poi una stagione a Lugano, prima del ritorno: Mestre, Bergamo, un temporaneo ritiro e l’ultimo urrah a Roma, anche in questo caso ‘l’altra’. Lo raggiungiamo nella sua casa di Columbus sepolta dalla neve: l’italiano, il suo, è perfetto.
COME ARRIVO’ JURA IN ITALIA?
Nel 1972 ero stato scelto al terzo giro dai Chicago Bulls della NBA ed al secondo dagli Utah Stars della ABA, ma la ABA era già in declino mentre nella NBA c’erano troppi veterani per essere protagonista da subito: così il dirigente dei Bulls Pat Williams (adesso vicepresidente degli Orlando Magic, ndr) mi consigliò di fare un anno in Europa. Grazie a Richard Percudani arrivai a Milano per conoscere la Mobilquattro: firmai subito, tornai in America per sposare Janet e poi iniziammo insieme la nostra vita italiana. All’epoca davvero un altro mondo, senza Mc Donald’s e con l’Ultima Cena che si poteva vedere pagando 200 lire: mi trovai bene, come a casa mia.
COM’ERA IL LIVELLO DEL NOSTRO BASKET NEI SETTANTA?
Davvero molto alto: gli stranieri erano due per squadra e la loro scelta non si poteva sbagliare, mentre gli italiani erano protagonisti e rappresentavano l’anima del club. Non erano tutti forti come Meneghin, ovviamente, ma nel loro contesto erano stelle e non gregari. Dal punto di vista tattico, poi, le differenze sono a favore di quel basket: ogni allenatore dava una sua identità ai quintetti ed insegnava un gioco di squadra: ricordo con piacere l’attacco a due post, io e Gigi Serafini, e tanti altri giochi che necessitavano dell’uso della testa. Non sono un nostalgico: oggi i giocatori sono più atletici ed individualmente magari più forti, sia negli Stati Uniti che in Europa, ma il loro basket non è più uno sport di squadra. C’è uno in isolamento con la palla in mano e quattro a guardare, al massimo si vede un pick and roll: il novanta per cento delle squadre di oggi gioca così.
CHI SONO STATI I PIU’ FORTI DELLA SUA ERA?
Dan Peterson, che nel 1974 allenava a Bologna, scrisse ai suoi corrispondenti nella NBA che in Italia c’erano almeno tre giocatori che dovevano assolutamente far parte della lega: Steve Hawes di Venezia, Bob Morse di Varese e Chuck Jura di Milano. Proprio contro la Synudine di Peterson disputai quella che ricordo come la miglior partita della mia vita: 42 punti e 22 rimbalzi sfidando un grande come Tom McMillen.
A PROPOSITO DI NBA, COME MAI NON CI HA PIU’ PENSATO?
Le cose non andarono proprio così. A Milano stavo benissimo, ma nel 1976 andai al camp di Cleveland e fui ingaggiato praticamente all’istante. Firmai con molti dubbi, ma subito dopo il presidente Caspani mi telefonò da Milano per offrirmi addirittura di più di quello che avrei preso ai Cavs. A quel punto pagai quasi con gioia la penale e ritornai in quello che sentivo il mio basket. Una scelta di cui non mi sono mai pentito.
COSA E’ MANCATO ALLA SUA MOBILQUATTRO, DAL 1976 XEROX, PER LO SCUDETTO?
Qualche campione italiano rispetto a Varese, Cantù e della Virtus Bologna. Siamo stati quasi sempre vicini al vertice, entusiasmando il Palalido, ma chi aveva i giocatori forti se li teneva. Però siamo stati il simbolo di un’epoca, per certi versi più delle squadre che sono andate sull’albo d’oro.
PENSA DI AVERE RAPPRESENTATO QUALCOSA AL DI LA’ DEL BASKET?
Forse in anni difficili dal punto di vista politico sono stato importante per tanti ragazzi, però me ne sono accorto solo molto tempo più tardi. Il ‘Lotta Jura senza paura’ del Palalido era un grido generazionale, ma non c’entrava con destra e sinistra: la verità è che noi eravamo la squadra dei giovani, l’età media del nostro pubblico era bassissima.
COSA FA OGGI CHUCK JURA?
Sono felicemente in pensione e gioco a basket nelle squadre master. Con mia moglie abbiamo creato alberghi e ristoranti che sono andati bene: ora li abbiamo venduti e viviamo metà dell’anno nel nostro Nebraska e metà in Florida. I tre figli sono grandi ed hanno la loro vita: il più giovane, Dusty, è un’ala di due metri che ha giocato anche lui alla Nebraska University e poi è andato in Spagna, a Cordoba. Fra poco giocherà in Australia, anche se il mio sogno sarebbe vederlo in Italia.
MAGARI IN UNA NUOVA SQUADRA MILANESE?
So che c’è un progetto in questo senso, che coinvolge tanti grandi personaggi di quella Mobilquattro-Xerox: il basket di alto livello costa tanti soldi, per il momento è solo un bellissimo sogno. Di sicuro mi emoziona sapere che ancora tanta gente si ricordi di me: anche a Mestre, di recente, ho ricevuto manifestazioni di stima fantastiche. Nel caso il progetto milanese si concretizzasse sarei prontissimo a tornare, magari come presidente onorario, nella città che mi ha fatto vivere sette anni bellissimi. L’unica cosa certa è che lo spirito di quella squadra romantica e di quel pubblico di ragazzini non morirà mai.
Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it
(pubblicato sul Giornale di sabato 3 gennaio 2009)

Sperando di fare cosa gradita alle poche centinaia di lettori interessati (non è un vezzo manzoniano, purtroppo l’argomento è proprio di supernicchia), il punto sul progetto di ricostruzione dell’anima della All’Onestà Milano, o Mobilquattro-Xerox che dir si voglia. Dopo avere contattato uno ad uno molti dei protagonisti di quell’epopea, il libro che stiamo scrivendo con l’amico-collega Giorgio Specchia da polveroso baule di ricordi si è trasformato in una valanga di contatti, progetti, sogni, emozioni. Gli incontri con Giovanni Milanaccio, primo presidente ed artefice della scalata (in sei anni!!!) dall’oratorio alla serie A, e proprio stamattina con Dante Gurioli, giovanissimo allenatore nell’ultimo anno Xerox (ultimo anno anche di Jura a Milano) nonché del Geas femminile (due scudetti con lui in panchina, ai tempi di Mabel Bocchi, Rosy Bozzolo, Wanda Sandon, Cristina Tonelli: fra le riserve ricordiamo Graziella Battistella, mamma di Andrea Crosariol), hanno fatto nascere qualcosa di diverso dalla nostalgia per un basket le cui dimensioni non erano poi molto diverse a quelle di oggi. Leggiamo sul primo Superbasket firmato da Claudio Limardi che la media-partita in serie A è di 3740 spettatori: nel recente passato si è fatto anche di peggio, ma siamo comunque su numeri da palazzetto anni Settanta. Milanaccio ha lasciato il basket nel 1971, quando il budget per una stagione di buon livello era intorno ai 300 milioni di lire: rapportando il tutto all’indice dei prezzi al consumo significa 2,6 milioni di euro di oggi, cioé proprio il budget per vivacchiare nella serie A 2008-2009 (anche se c’è chi spende meno). Gurioli ha allenato la prima squadra nel 1978-1979, più giovane allenatore della serie A (nonché unico a non avere, in Italia, un record perdente contro Dan Peterson: 1-1 il bilancio degli scontri diretti…), prima di dedicarsi alle sue attività imprenditoriali ed al basket di base con entusiasmo immutato ed immutabile (non esiste addetto ai lavori, di ogni livello, che non lo conosca). Ripartiamo da dove era finita, per arrivare chissà dove: forse da nessuna parte, ma sarà stato bello lo stesso.
Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it

Siamo pieni di idee che si scontrano con l’assenza di fatturato a breve ed anche a lungo termine, quindi non è un caso che la più bella di tutte sia assolutamente no profit. Anzi, preveda un costo personale di 1000 euro l’anno. L’idea è la seguente: riportare in vita, nel senso di basket professionistico, la Mobilquattro Xerox Milano. Non la Pallacanestro Milano, intendiamoci, società che ha appena compiuto 50 anni e milita in C regionale, ma proprio la Mobilquattro (cinque anni, dal 1971 al 1976) o la Xerox (tre anni, dal 1976 al 1979): cioé quell’idea di pallacanestro, libera e romantica, che negli anni Settanta conquistò il cuore di una generazione senza bisogno di trofei alzati. Idea nata nel 1980, quando la nostra squadra scomparì dalla scena che conta dopo anni di basket free and wild, rimasta in stand-by osservando tutti i tentativi di avvicinamento al Palalido (finalmente il nome di questa rubrica ha un senso…) di realtà con una storia diversa, maturata leggendo le mail di risposta agli straordinari pezzi di Stefano Micolitti, infine esplosa dopo la discussione con un collega pieno non solo di nostalgia mobilquattrina ma anche di progetti. La fase numero uno sarebbe quella di contarci: quanti di noi, non solo quarantenni (ci sono ragazzi che hanno mitizzato quella squadra), sarebbero disposti a far parte di una fondazione per il rilancio del loro sogno di bambini? Tutto deve partire proprio da noi che diciamo sempre di voler rivivere quella pallacanestro, poi a mendicare soldi presso gli sponsor saremo sempre in tempo: senza numeri iniziali significativi tanto vale rimanere attaccati ai vecchi ritagli e disturbare i giovani con racconti del genere ‘ai miei tempi’. Chi fosse interessato a conoscere i dettagli del progetto, oltre che a parteciparvi attivamente (i mille euro sono indicativi, ma il problema è che anche all’epoca eravamo in pochi), è invitato a scriverci. Speriamo ci siano altri capitoli.

Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it

Bar Inter, venerdì 9 agosto 2002. Sono quasi tutti in ferie, anche se quasi nessuno ha lavorato. In ferie ma a Milano, con tapparelle abbassate e canottiera. Solo qualche puntata dal Nino, tanto per non ammazzarsi di seghe nel cesso mentre la moglie o la madre stanno guardando un film con Alberto Sordi, quasi sempre quello in cui lui fa il medico marchettaro. Ci sono tante notizie di Inter su cui sputare sentenze, ma l’assenza di partite vere ha un po’ spento gente già spenta di suo. Da due settimane il Walter, che ha mandato la renna in una tintoria lurida (ci sono da togliere le ditate di patatine di un anno) spara su Ronaldo, e gli altri annuiscono e basta.
Però l’acquisto di Cannavaro, chissà perchè, fa salire la vivacità della discussione. Franco è sicuro: ”Con Cannavaro si fa il salto di qualità, possiamo fare anche la difesa a tre”. Analisi tattica resa più credibile dal cambio di camiciola: da azzurra a bianca con righe azzurre verticali, sbiadite da lavaggi a mille gradi. Gigliola, la moglie di Franco, oltre che togliere i colori agli orrendi vestiti del marito ha anche allevato due figli ciccioni e sudaticci, che si nutrono quasi solo di Rodeo e Bounty. Hanno 13 e 11 anni, Lothar Emanuele e Andrea, e il padre dice che sono le stelle delle rispettive formazioni, nell’Unione Calcio Milanese, l’UCM, orgoglio del quartiere. Non è vero, ma il calcio giovanile al bar interessa poco e così via di annuimento.
A Max Cannavaro non piace: ”Moratti ha fatto l’ennesima cazzata. Ha buttato al cesso centinaia di miliardi, fra Farinos e tutte le altre seghe che sono passate da noi, e adesso per risparmiare qualcosa su Nesta, il miglior difensore del mondo, è andato su una soluzione di ripiego”. Parole pronunciate con la sicurezza dell’uomo di successo, i suoi tre anni in uno di liceo scientifico sono andati bene (retta dell’istituto: 9 milioni di lire all’anno) bene, e adesso, a 18 anni, potrà iscriversi alla quarta in un liceo normale.
Il Lele dice la sua: ”Mi ha detto Facchetti, io Facchetti lo vedo sempre perchè è proprietario di due appartamenti sotto i miei, che Cannavaro sarà usato come pedina di scambio proprio per Nesta”. Naturalmente Facchetti non ha mai detto niente al Lele, che del resto non ha mai visto in vita sua. Forse non ha nemmeno due appartamenti. Magari ne ha duecento, oppure vive in una favela di Bergamo. Fatto sta che ogni tifoso interista asserisce di conoscere personalmente un dirigente dell’Inter, o perlomeno un osservatore. Oooh di meraviglia del bar, mentre Vito sta spiegando a Budrieri come funziona il videopoker. L’Oooh era chiaramente una presa per il culo, ma il Lele pensa di avere guadagnato punti. Non c’è il Gianni a ribattere: è a Porto Cervo (così ha detto) con una troia rumena, che incamera gli utili in nero della sua carrozzeria e degli altri traffici che ha in piedi. Così tocca al Walter riportare l’ordine, lisciandosi il baffo: ”Per me Cannavaro rimane, ma non è da Inter. Nesta è tutta un’altra cosa, nessuno comanda la difesa come lui. Mi ricorda un po’ il povero Picchi, anche se Picchi era un’altra cosa. Cannavaro è un muscolare, alla Ferri. Ma Ferri era uno vero, che non mollava mai. Date retta a me, che di partite ne ho viste tante: Cannavaro non è da Inter….”. (6-purtroppo continua)
Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it




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