Archivio per dicembre 17th, 2008

L’isola del tesoro

Tra le società rientranti nel perimetro di consolidamento del Gruppo con a capo Arsenal Holdings PLC (controllante tra l’altro di Arsenal Football Club PLC), ne risultano tre che hanno sede nell’Isola di Jersey e precisamente: Arsenal Overseas Limited, Gillespie (Jersey) Limited; Gillespie Holding Company (Jersey) Limited. La società Arsenal Overseas Limited è controllata al 100% e svolge come attività principale operazioni di vendita al dettaglio (Retail Operations). Gillespie (Jersey) Limited e Gillespie Holding Company (Jersey) Limited, entrambe controllate al 100%, sono due “Property Holding” , ossia holding immobiliari utilizzate, in genere, per investire in beni immobili o in titoli azionari o partecipazioni in altre imprese che investono nel settore immobiliare. Ma che cos’è l’Isola di Jersey? L’isola di Jersey, il cui nome ufficiale è Bailiwick of Jersey, è un’isola posta nel Canale della Manica, che pur essendo inglese non fa parte del Regno Unito ed è retta da un governo autonomo che dipende dalla Corona d’Inghilterra. Sfruttando questa autonomia dal Regno Unito, l’isola di Jersey è diventata piazza off-shore a tassazione agevolata. Per usare una parafrasi, è “un’isola che c’è”, un’isola della realtà, non certamente un’isola della lealtà e della trasparenza. Possiamo definirla anche “Isola del Tesoro” come ha fatto Fisco Oggi, Notiziario Fiscale dell’Agenzia delle Entrate, nell’articolo: “Paradisi fiscali a confronto, Jersey più seducente di Guernsey” del 21 ottobre 2004, in cui tra l’altro è spiegato che le isole del Canale della Manica custodiscono 330 miliardi di euro. Per quanto riguarda l’Italia, l’articolo 1 del decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, del 23 gennaio 2002 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 4 febbraio 2002), elenca i paesi della cosiddetta “black list”, ossia gli Stati e i territori aventi un regime fiscale privilegiato, e tra essi figura Jersey. Ma a cosa può servire possedere una società in un paradiso fiscale? In genere le società con sede nei paradisi fiscali costituiscono lo strumento utilizzato per lo spostamento di capitali. Esse vengono interposte nelle normali transazioni commerciali, rendendo indiretto il rapporto col fornitore, creando un passaggio in più, con un ricarico a titolo di provvigione. Ad esempio una azienda siderurgica che compra acciaio dall’estero, anziché comprarlo direttamente dal fornitore estero abituale, crea la società “X” in un paradiso fiscale e compra l’acciaio attraverso la società “X”. A sua volta la società “X” rivende l’acciaio all’azienda siderurgica ad un prezzo maggiorato. La maggiorazione del prezzo rimane alla società “X” nel paradiso fiscale, senza pagare tasse e rimpinguando ivi i relativi conti bancari. La finalità per cui vengono usate queste società è duplice: abbattere l’imponibile nazionale, trasferendolo in uno stato a più bassa tassazione, creare “provvista” all’estero, al fine di alimentare i pagamenti estero su estero, non esclusi i pagamenti in nero. L’applicazione di tale schema nel mondo del calcio non troverebbe difficoltà alcuna. Si pensi ai cartellini dei calciatori, in specie quelli sudamericani, posseduti dai procuratori e altri soggetti (anche in percentuale); o alla gestione dei diritti di immagine, che potrebbero essere ceduti a tali società.
Luca Marotta
jstargio@gmail.com
(per gentile concessione dell’editore, fonte: Il Pallone in confusione)

1. Stiamo raccogliendo tutti un po’ di argomenti pseudo-calcistici da calare durante le tre settimane di nulla, alla faccia dell’entertainment per famiglie, soprattutto per sfuggire alle classifiche sui campioni simbolo del 2008 ed alle previsioni sul 2009. Marcello, che anno sarà? Fabio, le tue pagelle alla serie A. Arrigo, chi gioca meglio? Fra questi argomenti ci sarà di sicuro l’imminente naturalizzazione di Amauri, grazie alla moglie-manager Cynthia, che permetterebbe a Lippi (sempre che non lo faccia Dunga) di convocarlo per l’Italia-Brasile del 10 febbraio a Londra. Vale lo stesso discorso strafatto per Camoranesi: la legalità è una cosa, l’identità un’altra. Amauri sarà un cittadino italiano e dal punto di vista del tesseramento anche un calciatore italiano, ma potendo scegliere preferirebbe giustamente tutta la vita giocare nel suo Brasile così come Camoranesi avrebbe preferito essere a suo tempo preso in considerazione dall’Argentina. Lippi è in mezzo al guado, perché a suo tempo Camoranesi italiano se lo era trovato già servito, Abete è di legno. Speriamo di non arrivare ai livelli dell’indecente nazionale azzurra di calcio a cinque del recente Mondiale: dodici su dodici nati in Brasile. Poi siamo, anzi sono, arrivati terzi disputando un torneo straordinario che non si può ridurre all’autogol di Foglia nelle semifinale con la Spagna, ma a chi importa?
2. Ai lettori più attenti di Tuttosport non sarà sfuggita la recente linea del giornale riguardo all’architrave della sua esistenza, cioé la Juventus (con tutto il rispetto per il Torino). Nostra sintesi brutale: Ranieri è uno che pensa troppo in piccolo, Cobolli si presenta bene ma quelli di Moggi erano bei tempi, i calciatori hanno offerte pazzesche da tutto il mondo (oggi il turno di Chiellini concupito da Wenger) però sono attaccati alla maglia, ma soprattutto Del Piero è una divinità come potrebbe esserlo Totti a Roma. Un culto della personalità martellante, nato ben prima della resurrezione atletica del giocatore, che a Torino non era stato riservato nemmeno a Michel Platini. Addirittura anche gli articoli su altri giocatori sono redatti in chiave Alex: ‘Del Piero incorona Marchisio’, ‘Del Piero aspetta Buffon’, eccetera. Ognuno ha le sue opinioni, soprattutto sul calcio, ma ci fa impazzire che l’oggetto del lavoro giornalistico sia non troppo indirettamente il datore di lavoro di chi scrive di lui: per esempio domani esce allegato alla Marrone ‘Effetto Del Piero’, dvd ufficiale (c’è scritto ‘firmato Del Piero’) del campione in cui Del Piero spiega i trucchi delle sue punizioni, commenta i gol più belli e le partite più importanti della Juve. Nessun moralismo, perché il giornalismo sportivo è un sottogenere dell’intrattenimento e perché in ambiti più pesanti (la finanza, per dirne uno), collaborazioni e marchette varie possono rovinare le famiglie più di quanto possa fare un modesto dvd. Nessun moralismo ma solo la sottolineatura che i media non finanziati direttamente dal prezzo di copertina sono per definizione non credibili.
3. A proposito di non credibilità, parliamo della mitica diffusione. Domenica a Inter-Chievo sembrava che ci fossero più Gazzette dello Sport che spettatori: la pubblicità, sempre meno, si vende anche in base a questi dati fasulli. Dove vogliamo arrivare? Alla solita conclusione: un quotidiano davvero indipendente dovrebbe costare 3 euro, ma forse non esistono abbastanza lettori a cui freghi di pagare il triplo per avere un quotidiano indipendente.
4. Guasti dell’oligopolio, stiamo parlando della Snai. L’episodio segnalato da Franco Rossi, cioé il rifiuto di accettare puntate superiori ai 50 euro sullo Sporting Lisbona vincitore della Champions League, non è purtroppo una novità anche in un calcio teoricamente pulito e significa fondamentalmente due cose. La prima: alla Snai non sanno allibrare, cioè cambiare le quote in funzione dei volumi: il fatto che relativamente pochi abbiano puntato su Chelsea, Inter, Barcellona, eccetera, significa che le quote non sono state considerate decenti dal mercato. La seconda: alla Snai possono permettersi questi comportamenti in un paese in cui lo scommettitore medio (quello che discetta di terreno pesante e che dice al vicino di vincere sempre) gioca ancora in agenzia ed usa il web solo per informarsi. Saranno spazzati via fra poco, per fortuna.
Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it
(appuntamento a domani, verso le 14)

Meglio di lui solo Fidel Castro. Sergio Campana ha iniziato un nuovo mandato da presidente dell’Associazione Calciatori. Formalmente, un’elezione. Di fatto, una cerimonia collettiva di bacio della pantofola sultanale che ha permesso di prolungare la coincidenza fra la vita di un’organizzazione e la durata in carica del suo fondatore: 40 anni tondi tondi. E se non è un record altro presidente all’infuori di lui, l’avvocato di Bassano del Grappa che da giocatore si prendeva i mondiale poco ci manca. Del resto, lui stesso a elezione avvenuta ha detto che i tempi per un ricambio al vertice dell’AIC non sono maturi (sic!), e che comunque per il quadriennio 2009-12 egli farà da traghettatore. Cioè, deve governare una fase di passaggio rispetto a sé medesimo. Il fatto è che da quel lontano 3 luglio 1968 in cui venne fondato, il sindacato dei calciatori italiani non ha avuto rimbrotti dei suoi allenatori perché in ritiro si dedicava a “attività sovversive” spendendo il proprio tempo dietro ai libri di giurisprudenza, anziché dedicarsi a passatempi più consoni al contesto. Tipo giocare a briscola coi compagni o tampinare le cameriere d’albergo. In realtà il talentuoso attaccante del Lanerossi Vicenza e del Bologna aveva idee chiare e occhio lungo a proposito delle cose del calcio e di come potessero mutare in meglio dal punto di vista dei diritti dei calciatori. Sicché quando giunse il momento fece il suo Sessantotto. Fu giusto in quell’anno “formidabile” che, per iniziativa sua e di un gruppo di calciatori massimamente rappresentativi (fra i quali Sandro Mazzola, Giacomo Bulgarelli e Gianni Rivera), egli fondò l’AIC. Che durante questo quarantennio è stata determinante per consentire ai professionisti del pallone conquiste fondamentali: come la firma contestuale sul contratto d’ingaggio e lo svincolo, frutti di dure battaglie. Con l’arma dello sciopero a essere agitata di continuo, o applicata in alcune circostanze sia in modo parziale che totale. La prima volta fu il 14 aprile 1974, quando i calciatori di serie A scesero in campo con 10’ minuti di ritardo per solidarietà verso Augusto Scala da Bagni di Romagna, sobriamente ribattezzato “il George Best di Bergamo” ai tempi in cui giocava nell’Atalanta; successivamente ceduto al Bologna, il giocatore venne messo fuori rosa dal club rossoblu per aver rifiutato la cessione all’Avellino. Fra tutte le azioni di protesta, la più clamorosa rimane quella che culminò nello sciopero di domenica 17 marzo 1996, allorché la serie A si fermò sostegno delle rivendicazioni che l’AIC portò avanti in seguito al pronunciamento della sentenza Bosman (antecedente di 3 mesi, 15 dicembre 1995). E’ proprio su quest’ultimo versante che Campana ha mostrato il proprio lato più conservatore, che l’ha portato a vedere nella sentenza-Bosman soltanto l’elemento di “invasione di stranieri” e non anche il carattere liberatorio rispetto a una disciplina del contratto degli sportivi professionisti la cui natura era pressoché schiavista. Le recenti battaglie di retroguardia sulla limitazione del numero di extracomunitari hanno fatto il resto. Lunedì, a elezione avvenuta e sull’onda dei suoi verdi quasi-75 anni, Campana non ha trovato di meglio che prendersela (indirettamente) con Vucinic per l’esultanza successiva al gol decisivo in Roma-Cagliari: “Non capisco e non giustifico il fatto che un calciatore debba per forza togliersi la maglietta dopo un gol. Devono esultare in un altro modo, non levandosi la maglia e ancor meno i pantaloncini. È un’usanza del calcio moderno di cui non capisco il significato e vorrei proprio vedere i giocatori esultare senza spogliarsi”. Così parlò il “traghettatore”. Del resto, quando giocava lui già il portare i capelli lunghi era segno di trasgressione. E che egli sia uomo d’altri tempi lo dimostra il fatto d’essere l’unico personaggio dell’attuale calcio italiano autorizzato a dare del “bamboccione” a Antonio Matarrese.
Pippo Russo
(per gentile concessione dell’autore, fonte: il Messaggero di martedì 16 dicembre 2008)