Archivio per febbraio 6th, 2008

Occhi alla Velasco

IL RE E LA SUA CORTE – Djokovic, Murray, Gasquet, Blake, Davidenko, Baghdatis, magari Safin e naturalmente Nadal. Il primo turno degli Australian Open ha confermato che – forse adesso come non mai – il tennis maschile è tornato vivo, nonostante il dominio di Federer. Prendete dal mazzo quello che volete e troverete uno che può vincere a Melbourne: personalmente scegliamo Djokovic, Murray o Blake, il primo perché è solido, il secondo perché è in palla, il terzo perché è in un momento fisico mostruoso. Insomma: per il nostro sport il momento è d’oro, anche se poi vincerà Federer. Ma non sarà una passeggiata. GLI OCCHI DI TIGROTTA – Tra le troppe sconfitte al primo turno dei nostri, scegliamo come peggiore quella della Mara Santangelo, avvenuta in diretta tv e davanti a Serena Williams. Non tanto perché la ormai enorme ex numero uno del mondo non sia tuttora superiore all’italiana, ma perché l’impressione è che Mara si sia arresa alla prima difficoltà – e cioè sul 2-2 del primo set – spaventandosi più del nome che della potenza della sua avversaria. Per chi ha visto l’incontro Serena è apparsa una normale, di livello ma normale. Certo, lei non può essere quella di un tempo e deve riprendere il clima circuito, ma se vale ancora la teoria degli occhi di tigre che tempo fa spopolava nel nostro mondo giornalistico, ecco: quelli non li abbiamo proprio visti. Serena aveva più o meno lo stesso sguardo che ha Julio Velasco oggi. A PROPOSITO – A proposito di donne, che si debba contare ancora su di loro è cosa ormai chiara. Che però si usino per mascherare i problemi del nostro tennis è altrettanto vero, anche perché il successo in Fed Cup del 2006 è stato un premio eccezionale e meritato ma non certo paragonabile – come invece si vuol fare – a una vittoria in coppa Davis. La colpa è nostra, naturalmente, maschilisti anche nello sport. Di certo però usare questo trionfo per fare la solita resa dei conti interna è altrettanto stupido. Un esempio: alla festa di celebrazione per la conquista dell’insalatiera femminile non hanno partecipato – per motivi diversi – i più importanti giornalisti del settore (per intenderci: noi non siamo tra questi). Colleghi ce n’erano, per carità, ma preferibilmente allineati, mentre gli altri di solito si affrontano a colpi di querele. Questa insomma è la logica del clan azzurro, nel vero senso della parola, incarnato da un ct che divide il mondo in amici (pochi) e nemici (il resto). Resta il fatto che Barazzutti, pezzo importante del tennis italiano, non può ritenere che lo stesso sia cosa sua. Anche perché non ci sarebbe da vantarsene. TURBOCOMMENTO – Come avevamo anticipato la settimana scorsa, le telecronache di Eurosport hanno preso il via con anadamento lento. C’è stata però la sospresa: nei match mattutini è comparsa la voce di Paolo Canè, a cui è dedicato il titolo di questa rubrica e che ha confermato comunque di essere ancora in palla. Canè, che attualmente dopo la parentesi nel reality ‘La Talpa’ sta curando l’organizzazione di un torneo chiamato ‘Tennis extreme’ (dove si gioca ad handicap e dunque chiunque potrebbe battere anche – esageriamo – Federer), ha alzato il livello del commento tecnico e ci ha fatti ritornare un po’ indietro, ai suoi turborovesci appunto. Paolino ha anche ricordato con orgoglio quando quasi battè Lendl a Wimbledon e quando sfiorò il successo contro Muster in un epico match di coppa Davis in Austria. Insomma: due sconfitte, ma che almeno – a differenza di quelle di Volandri e soci di oggi – ricordiamo con nostalgia. IL NOSTRO EROE – Abbiamo trovato il nostro idolo: si chiama Michael Russell, è americano, ha 28 anni e un fisico da vicino di casa che pensa di essere figo mettendosi la maglia di Nadal. Oggi era in campo contro Hewitt e vinceva due set a zero, 2-1 e servizio: poi ha perso, ma questo capita in uno sport meraviglioso come il tennis. Peccato però che lo stesso Russell qualche anno fa abbia fatto più o meno la stessa cosa contro Kuerten a Parigi: due set a zero, match point nel terzo e sconfitta finale. Al termine di quel Roland Garros il brasiliano alzò la coppa mentre Russell tornò nell’anonimato, dove è rimasto fino ad oggi: adesso invece entra di diritto nell’olimpo di noi sedicenti tennisti, quelli che vanno al circolo con racchetta e mutandoni firmati con l’aria di chi spaccherà il mondo. Tutto perché il tennis è uno sport meraviglioso, ma almeno oggi non ditelo a Russell.

marcopietro.lombardo@ilgiornale.it

Campi di patate

Oscar Eleni sulla strada per Casalecchio, facendo sosta premio a Soragna, zona Parma, dove un tempo si mangiava la vita sentendone il gusto, dove oltre i campi di patate di questo basket legaiolo, affidato per le ore notturne alla televisione lecca-lecca, scorgi la porta del tempio persa fra l’erba per le oche, ultimo dolore per Torquemada Porelli che entrando nella casa della gloria di questa nostra palla al cerchio non si volterà indietro. Pagelle anticipate perché esiste il sospetto che tre giorni a Bologna possano destabilizzare non soltanto fegato e colesterolo, perché siamo sicuri che berremo veleno guardando le code davanti alla casa di uno che per farti entrare vorrebbe l’inchino. Pagelle frettolose per la vostra pazienza:
10 Per Aldo OSSOLA che mai avrebbe pensato di entrare fra i 50 giocatori della grande storia europea. Non ci avrebbe pensato perché non era interessato, come quando lo avrebbero voluto in Nazionale, non sbavava per certe cose, ma adesso, siamo sicuri, gli farà piacere, tanto piacere.
9 A Pedro FERRANDIZ scelto fra i grandi allenatori europei, omaggio per un vero cavaliere del Real che ci ricorda come il suo amato rivale, spesso vittorioso, il Cesare RUBINI entrato prima di lui nella Casa della Gloria di Springfield, è scivolato fuori dall’elenco dove, chissà perché, hanno messo Lolo Sainz.
8 Per MENEGHIN, MARZORATI, RIVA che ci riportano nella bettola di Soragna perché era per seguire loro che si viaggiava, perché erano il meglio di un basket che non aveva bisogno di mettersi in punta di piedi per apparire più alto.
7 Al giornalista pesarese GENNARI per una coraggiosa battaglia a favore degli italiani che meritano l’aiuto del pubblico, tipo il Maggioli cacciato da Pesaro, tipo il Cianciarini che Pesaro vorrebbe masticarsi, della stessa gente che, invece, perdona tutto a mercenari tatuati e bugiardi.
6 A Bob MCADOO e Mike D’ANTONI che dal pulpito NBA non faranno caso a questi riconoscimenti europei, ma ci servono per ricordare che l’Olimpia Milano non era poi così male, anche prima di Corbelli, anche prima che arrivassero i cartelloni luminosi con la pubblicità.
5 Alla GIUDICANTE federale che ha ridotto la squalifica per il campo di Faenza dopo l’aggressione all’arbitro, una violenza che dovrebbe portare alla denuncia del colpevole, ma la stessa società che si vanta di aver fatto di tutto per la difesa non sa dove stia di casa uno che di sicuro conosce, perché deve essere un fanatico tifoso, uno dei pochi, perché qualcuno lo avrà pure fotografato.
4 Al grullo di SKY che difendendo le partite trasmesse alle ore 21, il grullo non è fra i due di briscola con microfono, sia chiaro, cerca di far sorridere spiegando che si va incontro alla fidelizzazione dello spettatore, ormai abituato all’orario a mezza strada nella domenica dove il calcio strangola, dove il pensiero del lunedì lavorativo ammoscia. Appendetelo per l’unico testicolo.
3 Ai CASTIGLIONI varesini per aver scoperto troppo tardi che è venuto il momento di ricostruire senza mettere nessuno al patibolo. Contro Teramo hanno tradito tutti ed un motivo ci deve essere.
2 All’arbitro di origine turche SAHIN che doveva rifiutare il premio Reverberi strameritato per la festa di Quattro Castella: l’invidia è una malapianta che nel settore cresce e ti avvelena. Meglio fingere di essere uno dei tanti, anche se per fortuna quando arbitra lui ci si accorge che intorno ci sono soltanto pigmei.
1 A Gianmarco POZZECCO perché, come viene fuori da un’intervista rosea alla madre, già quando era ragazzino pensava al suo successo e non alla squadra: sul tram avrebbe evitato di pagare il biglietto se fosse risultato alto meno di un metro, ma lui, furbissimo, si era messo in punta di piedi contento che la famiglia pagasse la multa. Adesso si spiegano tante cose.
0 Al Dan PETERSON che come Fregoli cambia ruolo ogni giorno perché fa rabbia sapere che aveva ancora tanta energia dentro quando ha lasciato la panchina, perché dispiace scoprire che in tanti si affidano al suo talento e genialità meno la Milano che avrebbe dovuto affidargli la rifondazione nel momento in cui avevano trovato i quattrini. Strane davvero le scelte di Fester e compagnia cantante che presto torneranno in pista con l’album delle figurine che ha dato all’Armani i giocatori peggiori nella stagione che doveva essere di rilancio europeo.

Oscar Eleni
Fonte: www.settimanasportiva.it

L’ultimo passo falso casalingo contro il Cagliari non ha portato particolari polemiche. E’ naturale che sia così. Ma quando non vince la Juve per i suoi tifosi è dramma. Non solo. Per gli stessi avversari il sapore del successo non ha aromi di primissimo ordine. Diceva l’Avvocato che il secondo è il primo degli ultimi e, dalla sua visuale tutta bianconera, aveva perfettamente ragione. La giustificazione che si adotta di questi tempi, dopo l’ingresso nell’aurea mediocrità, cioè nella zona Champions, è che in fondo si tratta pur sempre di una neopromossa. E’ un timido arrampicarsi sugli specchi per scivolare, Dio non voglia, sempre più in basso negli anni a venire, a meno che…
La verità di una situazione che ci sembra lapalissiana e che Ranieri cerca di coprire mettendoci coraggiosamente la faccia, appare totalmente diversa. Se è vero che una squadra non si improvvisa e non dà risultati dopo una sola stagione di assemblaggio, la Juve non ha fatto nulla per uscire da quello stato di team non più grandissimo, ma almeno teso a riconquistare il tempo perduto. Per chi ne ha voglia e deve infatti ricostruirsi per tornare al passato e al successo occorre dell’altro che non un Sissoko o un Mellberg, gente di tutto rispetto ma non certo con la capacità di cambiare radicalmente forza e attitudini che riportino ai fasti trascorsi. Se si parla Ronaldinho scorrono i nomi di Milan e Inter per un interessamento o l’eventuale acquisto, mai della Juve. E vale lo stesso discorso per altri giocatori che hanno raggiunto il top in Europa e nel mondo. E’ vero che Madama, nella sua storia, ha sempre acquistato giovani quasi semisconosciuti che poi hanno finito per mostrare il proprio talento in bianconero, ma è anche vero che allora c’erano investimenti tali in questo campo da assicurare il primato. Basti pensare a Charles e Sivori nel lontano passato o all’ultima rivoluzione compiuta da Moggi che portò a Torino Buffon, Nedved e via di seguito con spese sì da capogiro, ma anche con entrate corpose, considerata la cessione di Zidane. Adesso la logica dei fuoriclasse da acquistare è andata a farsi benedire, se in estate si è riusciti a malapena a prendere Almiron, mentre quella dei giovani sconosciuti ma di talento, lascia molto a desiderare. Comunque, se in questa stagione l’obiettivo era l’ingresso in Champions che sarà sicuramente raggiunto, c’è da chiedersi cosa accadrà nella prossima proseguendo in una politica di attesa e risparmio. Che in fondo non è tale perchè il non vincere comporta spese che non si recuperano…
Del Piero, poi, speriamo si conservi ancora bene, e anche Nedved avrà un anno in più: non è proprio detto che possano giocare agli stessi livelli. Resterà Trezeguet, ma il bomber se non ha palloni da spingere in porta non può andarseli a cercare. Forse i primi, gravi errori furono commessi all’epoca della caduta. Se determinate cessioni erano inevitabili, vedi Ibra e Vieira, sin da allora si doveva pensare il futuro senza nascondersi dietro il dito della possibile e certa promozione e di una neo promossa in A, che avrebbe rispettato i canoni che la stessa ordinava. Per altre squadre forse sì, è, è stato e sarà sempre così, ma per la Juventus no. E’ un concetto solo astruso, rapportato al bianconero. Se la Juventus non vince o non tenta di contrastare il successo agli altri sembra quasi che non abbia ragione di esistere.
E allora? Allora ricordiamo una stagione in cui la Juve fu allenata da Sandro Puppo, che guidò un manipolo di giovani verso una salvezza davvero faticosa, dopo che inizialmente era arrivata a collezionare ben otto sconfitte. Dopo quell’anno di carestia, però, come tradizione di famiglia comanda da sempre, scese in campo in prima persona il dottor Umberto Agnelli. Succedeva all’Avvocato che aveva lasciato da qualche tempo, dopo aver stravinto con gli Hansen e i Boniperti. Con il Dottore la Juve in un baleno tornò a essere Juve e a vincere a mani basse. Nella stessa storia dei bianconeri riportata dal sito ufficiale della società si può infatti leggere: “Umberto Agnell riporta subito la Juve sul trono d’Italia, Brocic non solo comanda i vari Boniperti, Charles e Sivori, ma fa anche esordire tra i pali un giovanissimo Mattrel; commise però l’errore di fare la guerra ad un Sivori osannato dai tifosi e super protetto dalla dirigenza e quando l’anno successivo la Juve venne sonoramente battuta per 7-0 dal Wiener in Coppa Campioni, lo jugoslavo venne congedato, con grande soddisfazione del “Cabezon”. Il dottore continuò a vincere e divenne anche presidente della Lega.
Ma questa è storia che può o non può incidere nei futuri destini societari perchè i tempi sono cambiati e certi ricordi possono lasciare il tempo che trovano, mai però nell’animo degli juventini di provata fede. Per questo un impegno personale degli eredi dei grandi presidenti bianconeri non guasterebbe, anzi potrebbe rappresentare l’inizio di un nuovo mutamento epocale e riportare la Juve ai fasti di sempre. Per John o Lapo pensiamo sia giunta l’ora di scendere in campo in prima persona. Lo impone la tradizione di famiglia che non può essere trascurata o sottaciuta, lo richiedono a gran voce i tifosi di tutta Italia. La Juve deve riprendere il suo cammino, deve tornare a stare alla pari di Milan e Inter e giocarsi lo scudetto in ogni stagione. Non può restare tra coloro che sono sospesi e procedere per tentativi fortunati o meno. E’ vero, il calcio non è matematica, ma la mano di chi governa spesso ha un peso determinante. Specie se l’impegno è in prima persona. Solo quando le cose procederanno secondo logica si potrà tornare alle gestioni diversificate. Lo insegna la storia bianconera, cui non è certo estraneo Gianbattista Vico con i suoi corsi e ricorsi. E’ l’ora di ricominciare insomma, perchè una Juve che non punti decisamente al primato, che si barcamena nel tentativo di conquistare un posto in Champions resta una squadra dimezzata. Quella che non piace ai suoi tifosi e neppure agli avversari.

Federico De Carolis
fedecarci@hotmail.it

Fino agli anni Sessanta Ac Torino (così denominato sotto il fascismo) e Juventus continueranno ad avere una vita separata. Tanto che mentre la Juve vince e stravince al “Corso Marsiglia” prima e al “Mussolini-Comunale” poi, i granata inseguono il proprio mito, in un mito. Quello del “Campo Torino”, di via Filadelfia. Negli anni (soprattutto negli ultimi) si sono scritti fiumi di articoli e libri, sul terreno di uno dei campi storici del calcio italiano. Si è cercato di salvarlo dal decadimento, si sono organizzati musei, mostre, marce di protesta e sottoscrizioni. Ma non è valso a nulla. Di quei gradoni a picco sul terreno di gioco, di quel sottopassaggio che fu di Valentino Mazzola, della fucina di grandi campioni del settore giovanile che divenne poi, non rimane che un campetto brullo. Difficile aggiungervi qualcosa di davvero originale, anche se a volte basta accettare di unirsi al coro e raccontare. Quel poco o tanto che si sa.
Il 17 ottobre 1926, nell’area dei mercati generali (a pochi metri dall’attuale “Olimpico”) fu inaugurato dal principe ereditario Umberto il “Campo Torino” che di sabaudo aveva poco e d’inglese molto. Capienza fra i 20mila e i 25mila spettatori, di cui solo un quarto a sedere (in tribuna coperta). Il Filadelfia, così fu subito chiamato dai tifosi granata, venne edificato per volontà del Conte Enrico Cinzano, allora presidente granata, su elementare ma efficace progetto dell’ingegnere Gamba. La prima gara annunciò lo strapotere di una società che, poi, avrebbe dominato: il Toro battè 4-0 la Fortitudo Roma davanti a 15mila spettatori. Fu solo la prima di tante goleade e vittorie di una società che, in quella casa, avrebbe segnato più di un epoca. Lì il Torino avrebbe vinto sei dei suoi sette scudetti e giocato per oltre 600 volte, fra Campionato, Coppa Italia e Coppe Internazionali, raccogliendo qualcosa come 390 vittorie con quasi 1500 gol segnati. Venne utilizzato stabilmente dal 1926/1927 al torneo 1945/1946, quindi, con l’eccezione di qualche stagione fino al 1962/1963, nella quale il Torino disputò le proprie partite interne sia al Filadelfia che al Comunale. Nel campionato 1963/1964 venne disputata solo la Coppa Italia, prima dell’abbandono definitivo. Singolare una coincidenza: nel 1958/59 il Torino, Chiamato Talmone, giocò sempre al “Comunale” e retrocesse per la prima volta nella sua storia. Giusto un decennio dopo la tragedia di Superga. Onorevole la sua fine: proprio al “Fila”, da fine Sessanta in poi, il Torino Calcio decise di impostare il suo settore giovanile. Centinaia di calciatori professionisti e decine di giocatori delle varie nazionali si formeranno all’ombra di quegli spalti. Sempre più mal tenuti, sempre più decrepiti. Negli anni ’90 furono abbattute le tribune e si ricominciò a parlare di ricostruzione dello stadio, almeno in parte, da destinare a gare delle giovanili. Fra tentativi di speculazione sventati e comitati per il suo salvataggio il “Fila “, o meglio il suo ricordo, è ancora lì in attesa di un futuro degno, fatto di almeno un nuovo terreno di gioco e spogliatoi adatti a squadre professionistiche. Degli spalti che furono non esiste più nulla, nemmeno il sogno di una riedificazione. Il resto è racconto che si confonde con la fiaba e diventa leggenda reale.
Come quella del “Trombettiere del Filadelfia” che suonava la carica quando Mazzola e compagni apparivano più svogliati del solito, magari annoiati dal loro strapotere. Quella tromba suonò un’ultima volta solo dopo la tragedia di Superga, prima di essere recuperata tanti anni dopo e conservata nel museo del Grande Torino. L’ultima gara, con capienza ridotta a 1.500 spettatori, il “Campo Torino” la ospitò nell’estate del 1986 per la semifinale di un dimenticabile Torneo Estivo. Il Pisa battè il Torino 2-1, mentre l’ultimo granata a segnarvi in campionato era stato un certo Enzo Bearzot nel maggio del 1963. Massì, forse ha ragione lo sceneggiatore che in un film dedicato al Grande Torino e al suo “Fila” fa dire a Giorgio Albertazzi: “Vedi, amico mio, il tempo quando entra qui si ferma un attimo e si toglie il cappello…”. E non fa niente che non ci sia, oggi, un vero posto in cui entrare. Già basta che non ci sia, in quei luoghi, un supermercato. Raccontò un ex giocatore granata degli anni Cinquanta: “…Giocare al Fila, oltretutto era comodo. Con gli spalti a ridosso del campo, si partiva già in vantaggio. Si potevano sentire non solo le urla, ma anche i respiri dei tifosi. Per gli avversari, per chi non c’era abituato insomma, giocare lì poteva trasformarsi in un incubo”. (fine quarta parte – la storia degli stadi di Torino continua mercoledì 13 febbraio 2008).

Fiorenzo Radogna
fiorenzoradogna@tele2.it

1. Passata l’emozione? Il ritorno alla vita normale, lavorativa, familiare, ha l’effetto di annacquare i ricordi più belli, ma questa volta l’effetto Super Bowl sarà durato di più, in molti. Perché poche partite sono state così significative e belle: belle nel senso dell’incertezza, dell’equilibrio, della sensazione che ogni azione, anche le corse centrali da una yard al primo down e dieci che allo stadio suscitano meno di un brusio, conti qualcosa per la traccia psicologica e tattica che inciderà nella difesa avversaria. Ormai si sa tutto, anche per chi non è esperto di football: i New York Giants hanno battuto i New England Patriots 17-14, togliendo loro la possibilità di chiudere la stagione imbattuti, e compiendo al tempo stesso una grandiosa impresa. Una delle più belle, se vista dal punto di vista tattico e delle motivazioni, che una squadra abbia compiuto su una ribalta così importante. Per riassumere, vediamo alcune considerazioni sparse, ciascuna delle quali per la verità meriterebbe una rubrica a parte.
2. Tom Brady non ha giocato una partita al livello della sua bravura, o reputazione. Cause: possibili problemi alla caviglia, mai ammessi; mancanza di ritmo nei passaggi, ovvero di quella fiducia che nasce quando ne completi uno, due tre di fila. Nell’unica serie di azioni in cui ha trovato questo ritmo, Brady ha guidato i suoi per 80 yard al touchdown della possibile vittoria a 2’42” dalla fine; pressione estrema della difesa dei Giants, specialmente della linea.
3. La difesa, appunto: guidata con grande coraggio e lucidità da Steve Spagnuolo, che ha allenato anche nella World League in Europa e che ora potrebbe diventare head coach dei Washington Redskins, aveva come principale intento quello di mettere pressione a Brady proprio in mezzo (un esempio è stato il durissimo sack, atterramento, effettuato da Jay Halford nel finale), più che arrivando dai lati, per un motivo molto banale: come sarà capitato spesso di vedere, un quarterback che ha pressione “larga” dai lati, magari a 6-7 yard dalla linea di scrimmage, spesso non fa altro che un passo o due avanti, aiutandosi così anche dinamicamente, e lancia, mentre i difensori che hanno cercato di arrivargli addosso per linee esterne devono tagliare. Pressando direttamente in mezzo, il Qb deve uscire da uno dei due lati, se è svelto, altrimenti non ha scampo. Detta così sembra banale, ma quel che ha fatto la linea difensiva di New York, con l’aiuto di linebacker abili a coprire gli spazi e buttarsi dentro pure loro, e defensive back che con marcature ben fatte hanno impedito a Brady di poter lanciare subito, è stato memorabile, nonostante quel drive da 80 yard dei Patriots che forse in quel momento hanno trovato una difesa un po’ stanca.
4. Eli Manning, un tipo che all’impatto risulta simpatico e riservato, ha giocato la partita migliore che potesse giocare, considerando la pressione che aveva: partendo subito con quattro primi down conquistati si è sciolto, e pure l’intercetto di Hobbs non gli è imputabile perché la palla è finita al cornerback dei Pats (battuto poi malamente da Plaxico Burress nel touchdown decisivo, era evidente che si aspettava che Burress tagliasse all’interno del campo e muovendosi per anticiparlo è rimasto sbilanciato) solo dopo avere sbattuto sul braccio impreparato di Stevie Smith, che per sua fortuna si è poi rifatto in seguito. Non compiendo errori clamorosi all’inizio, che avrebbero potuto dare ai Patriots l’opportunità di segnare punti presto e dunque far uscire i Giants dal tipo di partita che volevano, si è creato le premesse per quel gran drive finale, aiutato anche da una difesa non reattiva, specialmente nei linebacker, che non sono giovanissimi né particolarmente atletici.
5. La ricezione di David Tyree, 32 yard su lancio di Manning nel “drive” (serie di azioni di attacco della medesima squadra) che ha portato al touchdown decisivo è una delle più belle e difficili che si siano mai viste, considerando il momento (era terzo tentativo e cinque sulla linea delle 44 yard di New York): pallone alto, laterale, preso in pratica ad una mano con l’elmetto a tenerlo fermo dall’altro lato (e fuori dal campo visivo di Tyree, ormai) prima che durante la caduta a terra arrivasse l’altra mano a racchiuderlo, evitando che scivolasse o toccasse terra con possesso ancora non certo. Un gesto di atletismo, equilibrio, forza e concentrazione, che ha quasi fatto dimenticare come Manning avesse effettuato quel lancio, ovvero liberandosi da due tentativi di sack e lanciando dopo avere guardato solo per una frazione di secondo in direzione di Tyree.
6. Il trionfo dei Giants è il trionfo del football, se ci è permessa questa espressione. Attenzione: lo sarebbe stato anche una vittoria dei Patriots, che della migliore versione del football hanno dato dimostrazioni costanti, da settembre ad oggi. Quel che vogliamo dire è che l’aspetto di questo sport che ci ha sempre intrigato di più, ovvero quello tattico, ha avuto la sua sublimazione nella preparazione perfetta dei Giants in difesa, e nella bravura dell’attacco ad assecondare i cambiamenti avvenuti dopo che a metà dicembre Jeremy Shockey, il tight end, era finito ko senza speranza di tornare. Come Manning ha sottolineato, l’assenza di Shockey ha fatto sì che si modificassero alcuni schemi in attacco, distribuendo diversamente le responsabilità, e questo è ancora un altro modo di capire il football che non è forse immediato. Ci commuove e appassiona, forse anche per invidia, sapere che ci sono persone – gli allenatori – che trascorrono giornate intere ad analizzare filmati (ripresi legamente, e se ne parla tra poco) nella speranza di cogliere un gesto, una tendenza, un movimento che dia loro la chiave per superare la difesa o l’attacco avversario. Ai difensori alle prime armi, anche in Italia, dicono di guardare i piedi del running back inesperto, perché inconsciamente li volgerà anche di poco, prima che l’azione parta, nella direzione in cui sa di dover andare; nella NFL uno così non durerebbe dieci minuti, e il livello di analisi è infinitamente più complesso, quasi scientifico, esaltante. Tom Coughlin, il coach dei Giants che pareva un orco e quest’anno si è addolcito, e Spagnuolo, con tutti gli altri assistenti, hanno evidentemente capito dei Patriots qualcosa che prima non era evidente. Poi, per fortuna, non si fa tutto a tavolino: se Tyree non avesse preso la palla con il… casco, forse ora queste righe sarebbero dedicate alla stagione immacolata di New England.
7. Impossibile, presuntuoso persino, riassumere in queste righe cosa voglia dire un Super Bowl. L’atmosfera, frizzante senza mai essere tesa, nella settimana che precede la partita, è qualcosa di persino bizzarro perché a volte non si riesce a tenerla tutta sotto controllo. Ovunque ci si giri c’è qualcuno che indossa un capo di abbigliamento con il marchio della partita o di una delle due squadre, e il bello è che dopo qualche giorno l’assuefazione è tale che si notano più quelli privi di loghi che non quelli che li indossano, come magari avviene nelle prime ore, all’arrivo, quando tutto è nuovo ed esaltante. Il Super Bowl spunta da tutte le parti: le passerelle che uniscono gli aerei atterrati ai terminal, quelle insomma su cui si cammina una volta usciti dall’aereo (negli aeroporti USA è rarissimo che si usino i bus per trasportare all’aeromobile, in vent’anni di voli non ci ricordiamo un solo caso del genere), recano il logo temporaneo, così come ogni oggetto su cui sia possibile apporlo. E’ una sorta di Second Life sportiva, se non fosse che è invece la prima e non è per nulla virtuale, ma tangibile ad ogni chiosco, ad ogni negozio, ad ogni trasmissione tv, senza neppure diffonderci in considerazioni sull’NFL Network, il canale televisivo che in realtà sarebbe dannoso nelle nostre case perché ci costringerebbe allo status di nullafacenti. L’osmosi progressiva tra evento e città che lo ospita è tale che regolarmente i quotidiani locali, pur facendo di tutto per occuparsi del Super Bowl su tutti i fronti, ospitano anche una sezione in cui NON venga neppure menzionata la partita: l’Arizona Republic aveva l’altro giorno un inserto dal nome INSTEAD, che come dice il nome (“invece”) dava una lista di cose da fare e spettacoli da seguire per chi non volesse neppur sentire nominare il Super Bowl, e chi la pensa così va comunque rispettato perché si parla di americani cui semplicemente non piace questo sport. Perché non dobbiamo dimenticarci un aspetto, razionalmente: anche se ogni anno i giornali italiani premono il pulsante “stereotipo” scrivendo che l’America si ferma per il Super Bowl, bisogna ricordare ancora che la percentuale di case americane in cui il televisore è stato acceso sulla partita è stato del 43.2%, cioé meno della metà delle famiglie americane ha guardato la partita. Certo, la media è stata di 97.5 milioni di spettatori – record per un Super Bowl – con punte di 105, e delle tv accese il 65% era sintonizzato su Pats-Giants (81% a Boston, solo 67% a New York, ma lì ci sono anche i tifosi dei Jets…), ma secondo i nudi numeri la maggioranza degli americani in possesso di un televisore NON ha guardato il Super Bowl, ed è un dato che può colpire chi si immagina strade deserte in ogni dove, se non si considera appunto che ogni anno la partita è comunque sempre tra gli spettacoli televisivi più visti della storia (solo l’episodio finale del telefilm Mash, nel 1983, ha avuto più spettatori di un Super Bowl, 106 milioni). In più, trattandosi di una sorta di festa nazionale che porta all’aggregazione più che all’isolamento, il motivo per cui molti televisori sono spenti è che i loro proprietari si sono riuniti a vedere la partita a casa di amici, arrivando magari già per il pranzo (un classico di questi giorni è nei giornali l’inserto con le ricette per il giorno della partita), e dunque il numero di spettatori è più alto di quanto viene calcolato. Per tutto questo, per il clima, per la sportività (“sì, abbiamo perso, ma passerà, siamo lo stesso una grande squadra e la cosa più bella è che ci siamo divertiti un mondo a Phoenix” diceva sul pulmino per l’aeroporto ieri un tizio che indossava la maglia di Tedy Bruschi), per il colore, per i colori, per l’emozione di certi momenti in cui allungando le braccia in avanti sentiresti quasi di stringere tra le mani la tensione, sfioriamo il sacrilegio dicendo che un viaggio al Super Bowl dovrebbe pagarlo la mutua, prescrivendolo, al posto delle noiosissime terme, a chi soffre di eccessivo stress.
8. Inutile comunque fingere che non ci fosse un convitato di pietra, a Phoenix, dove del resto di rocce e deserto se ne intendono: il sospetto di spionaggio sui Patriots, sospetto a dire il vero concretizzatosi in realtà in settembre, con la multa di 500.000 dollari rifilata dalla NFL a coach Belichick perché un addetto della squadra aveva filmato le segnalazioni degli allenatori dei New York Jets – squadra, ahilei, battibile anche senza particolari grimaldelli. Come noto, la lega confiscò sei dvd e fu dopo averli analizzati che decretò la punizione per coach e squadra, ma alla vigilia della gara è venuto fuori un ex addetto video dei Pats che sostiene di essere in possesso di altri filmati compromettenti, uno dei quali con il cosiddetto walk-through dei St.Louis Rams prima del Super Bowl XXVI (gennaio 2002), ovvero il ripasso degli schemi “camminando”. Potenzialmente un disastro, perché confermerebbe quel che molti ipotizzarono in settembre, cioé che la NFL avesse deciso di distruggere nastri ed appunti in quanto contenevano materiale che avrebbe messo in discussione la genuinità dei tre Super Bowl vinti dai Patriots. Le teorie del complotto sono spesso patetiche per l’uso selezionato delle prove che viene fatto per supportarle, e mai vorremmio giuliettochiesare ipotizzando insabbiamenti gravi e macchinazioni da Grande Vecchio, ma una cosa va fatta, ancor prima che detta: se c’è qualcosa di losco, la NFL può anche mantenere un viso pubblico imperturbabile, ma deve, assolutamente deve, stroncare nella culla qualsiasi persona o situazione che possa minare l’onestà del suo campionato. Come per la questione doping, su cui torneremo se ne avremo le forze e la lucidità, meglio soffrire un po’, negli uomini e nelle circostanze, che macchiare una reputazione che la NFL, un carro armato dal punto degli appoggi, dei contatti e dell’influenza, ha costruito in decenni, e che l’hanno resa la lega professionistica più forte d’America.
9. La prossima settimana torneremo sul Super Bowl. Per motivi di digestione, un pezzo su Internet non può essere troppo lungo, ed allora teniamo per altri sette giorni una parte della montagna di curiosità, aneddoti, segnalazioni intercettate a Phoenix.
10. In chiusura, una pessima notizia: il campionato NFL riprenderà solo tra sette mesi. Coraggio.

Roberto Gotta
chacmool@iol.it
http://vecchio23.blogspot.com