Archivio per marzo, 2008

Non è vero che i morti sono tutti uguali: continuiamo a credere che gli atti delle persone abbiano una certa importanza anche nei paesi in cui la responsabilità individuale di fatto non esiste. Per questo l’ondata di retorica sulla morte del tifoso del Parma, condita dalla solita ipocrita decisione di non giocare la partita, ha avuto toni se possibile ancora più assurdi di quelli usati l’11 novembre scorso per la morte di Gabriele Sandri, un altro ragazzo di buona famiglia bisognoso psicologicamente di dare un inquadramento militare alla propria passione calcistica. Come nel caso del tifoso laziale, Matteo Bagnaresi e i suoi compagni avevano attaccato briga con tifosi della Juventus durante una sosta all’autogrill: non erano insomma passanti o appassionati di calcio che si stavano facendo gli affari loro, fra una rustichella fredda ed un very best di Pupo pescato nel cestone. Rispetto all’episodio di quasi cinque mesi fa, nato da un litigio fra cani sciolti ormai terminato e male interpretato da un poliziotto, quello dell’area di servizio Crocetta Nord ha una connotazione più classicamente da tifo organizzato. Un centinaio di Boys del Parma incrocia un gruppo di juventini lontani dal mondo ultrà (Juventus Club Crema) e dopo averli ‘avvertiti’ già in autostrada, assedia il loro pullmann con le solite modalità. Pezzi di vetro, cinghie, bottiglie, minacce, con tentativo di salire sull’automezzo: intenzioni al centodieci per cento non pacifiche, paura fra gli occupanti, alcuni dei quali già colpiti mentre erano allo scoperto, ed ovvia richiesta all’autista di scappare il più in fretta possibile. Qui Bagnaresi si piazza davanti al pullmann con le mani alzate: un pacifista sfortunato? Non escludiamo niente, ma di sicuro non si trovava lì per caso come sarebbe potuto essere, ad esempio, per un qualunque altro cliente dell’autogrill. Poi l’incidente e tutte le cose che si sono dette, con l’italianissimo tentativo di mettere tutto e tutti sullo stesso piano quando invece ci sono stati aggressori e aggrediti, professionisti della provocazione senza causa (ci riferiamo a tutti gli ultras del mondo, non solo i Boys) e tifosi normali, gente che veniva da tre anni di Daspo (come Bagnaresi) e persone che volevano solo occupare la propria domenica. Poi la nostra cultura-blob può mettere Sandri e Bagnaresi sullo stesso piano morale di Salvo D’Acquisto, anzi lo sta già facendo, con annessi minuti di silenzio, trofei alla memoria e sociologia del ‘siamo tutti colpevoli’, dimenticando che qualche volta alla morte si va incontro.

1. Il était un Fois, c’era una volta il dilettante allo sbaraglio del Valle d’Aosta 1995, quello con Stefano Faustini, Marco Della Vedova, Vitaly Kokorine e Oscar Camenzind. Dei cinque si magnificavano le sorti progressive dei primi quattro, capocordata lo scalatore bergamasco: lui e quei suoi rapporti impossibili spinti fino al limite e oltre, oltremodo redditizi tra gli under 23. Al contrario non si dava troppo credito allo svizzero, che puntualmente passò all’incasso tra i pro (Mondiale, Lombardia e Liegi). Gli altri precipitarono presto nell’anonimato, chi più chi meno. Valentino meno, la sua immagine faceva ancora moda, molto fashion e poco provincia. Fu così che al palmarès si sovrapposero i referti tossicologici e pure i verbali di polizia. Le chiacchiere di paese sottintesero vere e proprie leggende metropolitane, mi ha detto mio cuggino dell’amante d’Inzaghi e del pusher di Vieri. Finale da depressione nonostante la famiglia, l’amico Tonkov e il lavoro con Fanini. Opere di bene e niente serviziacci a “Le iene”, oggi o domani. Per favore, pietà.
2. Non è uno scandalo ma ha comunque del clamoroso, la passaportopoli del più incredibile (o meno credibile) degli sport professionistici, ancora quello del 50% massimo d’ematocrito, minimo fino a una decina d’anni fa. L’Agenzia mondiale anti-doping non vuole finanziare alla Federazione ciclistica internazionale gran parte della spesa necessaria per l’introduzione del nuovo sistema sanitario e di controlli, a tutela della salute personale dell’atleta. In soldoni fanno il grosso dei 5,3 milioni di Euro annuali preventivati dall’Uci per delineare profilo ematologico e steroideo di ciascun tesserato, passaporto biologico alla mano. Operazione delicata, programma completo di quasi diciottomila test sangue e urine vicini e lontani dalle competizioni. E invece nemici come prima, la storica Wada dell’ex Dick Pound (adesso di John Fahey) e il solito Pat McQuaid, per gli annali non un finissimo diplomatico. Tutta colpa di una causa pendente tra le parti per ingiurie e danni d’immagine, roba da ridere se non ci fosse da piangere: a quando l’anti-doping pagato alla romana?
3. Sul palco della Sanremo Fabian Cancellara avrebbe potuto ringraziare – nell’ordine – madre natura, i suoi padrini Riis e Cecchini, la frana di Capo Noli, Bruseghin che fa fuori Napolitano sulle Mànie, i Liquigas che riportano dentro tutti tra Cipressa e Poggio. Ma non l’ha fatto, giustamente orgoglioso com’è. E non tanto della “storica tripletta Eroica-Tirreno-Classicissima” (la Corsa dei due mari ha quarantadue anni, la Mps è alla seconda edizione): quanto della condizione raggiunta in questa stagione, bilanciando peso e potenza. È come scattato qualcosa, nel meccanismo del cronoman nato sotto la Torre dell’orologio, il 18/3/1981. A primavera è sbocciato un corridore. Ora, quali sono i traguardi che gli sono effettivamente preclusi, di questo passo? Forse solo Liegi, grandi giri e Lombardia. Per il resto la differenza l’ha fatta una corsa lunga e dura come non mai, facile nel suo svolgimento proprio perché difficile nel tracciato. Ha vinto il migliore, come (quasi) sempre alla Roubaix e come (non) sempre dove perde chi perde l’attimo. Pozzato, per esempio.

Francesco Vergani
francescovergani@yahoo.it

Sistema Dorfles

Oscar Eleni dai giardini di Sumirago per scoprire cosa spinge Ottavio Missoni, gloria della nostra atletica, artista della nostra moda, a camminare sul bordo della strada giocando con una pallina per tenersi in forma. E’ reduce dal terzo posto nei mondiali over, lui è del 1921. Getto del peso. Sceglie le gare dove può vincere. Gli piace vincere, gareggiare non basta. Spiarlo e applaudirlo senza chiedergli se gli mancano le partite a tennis con il suo amico Cesare Rubini. Troppo doloroso. Il principe manca a tutti, soprattutto manca a quelli che speravano davvero di vedere Milano tornare a splendere seguendo un genio come Armani, un grande unno come Danilo Gallinari, ma l’orizzonte è senza luce.
Ci hanno imbesuito con la storia degli americani fuori dalla fortezza di Bastiano Corbelli. Non si vedono, proprio come i tartari di Buzzati. Con questa storia del dollaro svalutato sull’euro si fa una grande confusione, ogni volta che la NBA batte le mani gli orsi di queste pianure si mettono a ballare, ma per fortuna ballano così male che il prossimo anno le squadre del superregno andranno a fare il precampionato a Parigi, Londra, Berlino e Barcellona, saltando l’Italia. Vi stupite? Cara e santa ingenuità della gente che ancora crede, ad esempio, che il Corbelli venderà, mentre tutti capiscono che se avesse voluto farlo ci avrebbe messo una settimana a mettere ogni cosa nelle mani del gruppo Armani che non è proprio intenzionato a gestire anche una squadra sportiva, ma vedendo il gioco si era dimostrato pronto al sacrificio fino a quando ha scoperto il nuovo contratto di Danilo Gengis Gallinari: senza vincoli per andare nella NBA, con una buona cifra di uscita per andare in altre squadre europee. Ora studiando come si muovono le grandi d’Europa, sentendo il canto di Ettore Messina in uscita da Mosca, appare chiaro che Vittorio, il padre del principe, ex giocatore, anche di Messina, ha compreso bene cosa serve ad un talento in costruzione: serve la scuola severa di chi non ti permette di fare tutto di testa tua, di chi non ha bisogno di sfruttarti per vincere perché lo ha già fatto, perché sa che gli servi più completo per spostare davvero certi valori. Se Milano non vuole lucrare sul Gallo allora faccia sapere che ha già venduto senza toccare una pedina della squadra che adesso punta al quinto posto, perché se non è così, se, come dicono tanti, il Gallo entrerà nelle scelte, salvo poi decidere a giugno, allora possiamo comprendere cosa ferma i compratori, cosa tiene lontano chi vorrebbe lasciare al Corbelli soltanto ricordi napoletani.
Vedremo, ma intanto eccoci in piena guerra politica con il commissario tecnico della Nazionale che visto il porcellum dei nuovi accordi ha dichiarato di aver perso la pazienza, fingendo, con questo, di sentirsi ancora a cavallo, con fiducia totale, mentre sappiamo benissimo che nelle nuove regole sugli italiani di formazione hanno fatto un tale pasticcio che ora vedi ballare sul fiume quelli bravi a fare le squadre con sei americani, quelli che non vanno più a cercare in profondità, quelli che non sanno come fare davanti ad un ragazzo di due metri e dieci, trovato per caso all’uscita di una scuola, un ragazzo di sedici, diciassette anni, che prima ha voluto provare con l’atletica o il nuoto, perché a quella età, se pure si è invaghito del basket, non sarà un ragazzo di formazione italiana come magari i ragazzini trovati in Sudamerica, all’Est, per cui sarà difficile trovargli un posto come comunitario o roba del genere. Siamo davanti all’esaltazione per il campionato nazionale under 19, meglio di niente, si capisce, un obbligo anche economico che costringerà le società a fingere il meno possibile e a non fare scelte comiche come quella di mandare in panchina con tanto di sciarpa l’italiano influenzato, l’assistente tesserato anche come giocatore, ma ad essere seri sappiamo che in molti paesi i dicianovvenni sono già pronti per i grandi campionati, per il salto definitivo, mentre qui da noi che è cresciuto anche bene deve andarsene in prestito, senza sapere se tornerà mai indietro.
Miele sulle nuove regole e non dite che si borbotta sempre, tanto per criticare chi almeno pensa qualcosa. Bella scusa. La verità è che in certi pensatoi girano i nostri ser biss togati, si litiga su quasi tutto e si ha proprio l’impressione che nessuno pensi al bene comune, facendo progetti che vadano bene valutando quello che serve al movimento, un basket che scopre di avere più tesserati a Torino, dove la serie A manca da anni, che in città servite bene dalla gloria e dal tempo. Torino che cerca un passaporto per la massima serie aspettando risposte da chi non ce la fa più e questa storia del comune di Cantù che non darà più una lira alla Pallacanestro dei Corrado fa pensare male così come fa riflettere l’idea del proprietario di Scafati interessato ad Avellino dove, diciamoci la verità, non sono andati poi così male. Per chiudere il pensiero Dorfles, magnifico ultranovantenne, artista, pensatore, genio, diretto ai ragazzi dello “Slurp Team” di SKY: ”Bisogna odiare il rumore, ribellarsi all’ascolto disattento, sentendo e non ascoltando, guardando e non vedendo, non distinguendo né musica, né parole, né immagini. Tutto serve come riempitivo e diventa uno dei tanti rumori di fondo della vita quotidiana”. Avanti con il pagellone ciambellato.
10 A Marco CALAMAI, allenatore geniale che ha lasciato il basket paludato per dedicarsi ai disabili, per uno sguardo verso l’alto con l’apertura di un altro centro a Firenze dopo quelli in Emilia e Romagna. Lui è andato oltre i limiti, in molti vorrebbero seguirlo, in molti dovrebbero aiutarlo. Basta scrivergli.
9 A Carlo RECALCATI che magari ci sbalordisce chiamando ancora Garri e Spinelli, ma che non si lascia prendere in giro da chi pensa di poter fare riforme senza ascoltare il settore tecnico, un centro fondamentale per qualunque federazione sportiva.
8 A Carlton MYERS perché i suoi record aumentano, perché nel nome suo si fermano le partite quando arriva ad 11000 punti, è successo anche in Italia cara gente, perché adesso che è alla 600esima in serie A dovremo andare a cercare la sua storia dal primo giorno per scoprire che forse avrebbe potuto essere più grande se intorno avesse avuto gente vera e non soltanto cortigiani o autisti.
7 A CIAMILLO e CASTORIA i fotografi dell’anima in questo basket che molte volte non si accorge della fatica vera, della gente vera, e va dietro a qualche frillo. I fotografi della pallacanestro, cominciando dal Campeggi, non hanno mai rubato l’anima ai giocatori come pensavano certi indiani, ma l’hanno fatta venir fuori.
6 A Rick PITINO che sopravvive nel torneo NCAA dopo aver eliminato i favoriti di Tennessee perché in lui, passato dall’università all’inferno NBA e tornato al college, vediamo tanti nostri allenatori che ancora non hanno capito cosa vogliono davvero, ma cercandolo si perdono, mentre c’è tanto da fare e da insegnare, anche lontano dai corsi di aggiornamento.
5 All’Università di Siena, campione della Metro Conference, perché dopo la vittoria su Vanderbilt eravamo già pronti a legare la storia di questo college con quella della Mens Sana, ma poi ha ceduto contro Villanova mancando le dolcezza delle finali NCAA che sono davvero delizia di Marzo, soprattutto se senti certe voci e quella di Bonamico ci garba sempre di più.
4 Alla NBA che turba il sonno di tanti poveri campesinos italiani in attesa di scoprire cosa succederà a Gallinari, all’Olimpia Milano, mentre là dove si può è già stato deciso che per quest’anno l’Italia del basket esotico dovrà accontentarsi solo degli Harlem, perché saranno altre le città gratificate, si fa per dire, dal precampionato degli ascari di Stern.
3 Alla GAZZETTA degli orgasmi che preferisce l’America ai nostri ragazzi d’altura, che non ha quasi mai spazio e che, soprattutto, da oggi ci farà piangere e sospirare con il formato tabloid, che sarà anche un cammino verso la giovinezza ed il futuro, ma, ad occhio, ridurrà ancor di più lo spazio e la casa per gli sport “ minori”.
2 All’OSSERVATORIO che ha deciso di vietare ai tifosi di Cantù la trasferta di Varese togliendoci l’illusione che il basket sarebbe stato il primo a capire certi messaggi e a non ricadere in certi peccati.
1 A Marco BELINELLI che ha giocato finalmente 4 minuti e ha segnato 5 punti nella vittoria sui derelitti di Portland perché questo nasconderà il ritorno di Bargnani sulla panchina di Toronto fra gli osanna della stampa canadese.
0 Al presidente federale MAIFREDI, al presidente di Lega CORRADO se non smentiranno subito il loro caro Recalcati che ha dichiarato ufficialmente di essersi sentito ignorato da chi doveva discutere sulle nuove regole di tesseramento, che ha denunciato la perdita della santa pazienza e che si è dichiarato certo di trovare ben presto nei vivai soltanto ragazzini stranieri facilmente passaportabili.

Oscar Eleni
Fonte: www.settimanasportiva.it

Segno di grandezza


Fra le tante cose che si sono dette del contratto di Donadoni dopo l’Europeo ci sembra ne manchi solo una: non è uno scandalo che un allenatore, un giocatore, un dirigente, partecipino ad una manifestazione sapendo che la propria epoca è terminata, anzi, spesso è una motivazione in più. Senza allargarci oltre i confini della Nazionale basti pensare a Marcello Lippi che al Mondiale 2006 già prima dell’ottavo contro l’Australia aveva comunicato al vituperato Guido Rossi (giustamente Lanese sarà candidato alle prossime Politiche con l’Udc già vicina al suo amico Moggi) ed agli intimi l’intenzione di abbandonare, o a Dino Zoff ad Euro 2000 solo alla caccia di un pretesto (poi arrivato grazie alla sparata di Berlusconi, complice un sondaggio da bar, su Zidane da marcare a uomo) per tornare alla Lazio ed al golf. Viceversa il commissario tecnico troppo garantito non ha mai reso più un saldo un gruppo al capolinea o costruito male. Trapattoni 2002, Sacchi 1996, Bearzot 1986: contratti già rinnovati e fallimenti rovinosi, nel secondo caso con qualche rimpianto (l’esagerato turnover con la Repubblica Ceca) e nel terzo con l’attenuante della riconoscenza dovuta ai campioni del mondo. Insomma, basta trattare Donadoni come una povera vittima. Ha fatto bene, mettendosi con intelligenza ed umiltà nelle mani degli eroi di Germania, rischia di fare benissimo potendo anche vincere l’Europeo nonostante il difficile girone iniziale, ma l’Italia la possono guidare con successo almeno altri dieci allenatori. Vietato ammorbare con l’inutile analisi tattica dell’inutile Spagna-Italia di Elche, con immagini di produzione Rai degne del socialismo reale: la presenza di Manolo e del suo tamburo, piuttosto, che dei militari in poco libera uscita, ci ha però fatto capire di essere nel 2008. Colori ed inquadrature scacciapubblico, per chi è abituato a Sky o anche solo a Mediaset-LaSette, che però non hanno nascosto lo spirito di una Nazionale orgogliosamente uguale a se stessa tanto da imporre il recupero in grande stile di Fabio Grosso, uomo-copertina del 2006 e non a caso il migliore in campo, senza nessun problema di intesa con Materazzi, l’anno scorso causa primaria della sua fuga dall’Inter (liti da spogliatoio e dintorni). Saremo fissati, ma un Mondiale supera tutto il resto messo insieme. Tre difensori su quattro hanno trentacinque anni? Poco male, la vita è adesso. Anche negli altri reparti l’età media è altissima: fra i titolari sotto i trent’anni ci sono solo un Pirlo a scartamento ridotto, che fino a giugno si gestirà da kicker o poco più, ed un De Rossi splendente. Fra dieci anni, storicizzando simpatie ed antipatie, capiremo cosa vale questa squadra. Secondo noi tanto: forse è la prima grande della storia del calcio senza un fenomeno dalla tre quarti in su. Un segno di ulteriore grandezza.

1. “La mia immagine: sono un ex-portiere, sono giovane e sono nero, pertanto nessuno mi prende in considerazione”. Parole di Stanley Menzo, allenatore del Volendam primo in Eerste Divisie e principale indiziato per la promozione diretta nella massima divisione olandese. Comunque vada, l’ex numero uno dell’Ajax lascerà la panchina degli Andere Oranje (gli Altri Oranje) a fine stagione. Vuole di più, vuole un club di Eredivisie con ambizioni, vuole il giusto riconoscimento nei confronti di una carriera che si sta costruendo passo dopo passo, senza imboccare scorciatoie né corsie preferenziali alla Van Basten. I dilettanti dell’Afc Amsterdam, l’Agovv Apeldoorn, la nazionale olandese in qualità di preparatore dei portieri, quindi, dal 2006, il Volendam. Gavetta, in poche parole. Ma all’orizzonte di offerte non se ne vedono. “La mia immagine…”, continua a ripetere Menzo. Non riusciamo a dargli torto.
2. Lo chiamavano “De vliegende kiep”, il bassotto volante, quando indossava i guantoni e difendeva la porta dell’Ajax. Lo ha fatto per undici stagioni prima di venire giubilato da Louis van Gaal a favore dell’emergente Edwin van der Sar dopo una papera nei quarti di finale della Coppa Uefa 92-93 contro l’Auxerre. Ma Stanley Menzo rimane tutt’oggi il portiere più amato dai tifosi dell’Ajax, che non hanno mai mancato di tributargli calorosi applausi ogniqualvolta il nostro è tornato, in veste di avversario (un’amichevole tra Ajax e Lierse) o di ospite (la festa per il 50esimo compleanno di Johan Cruijff), a calcare il prato dell’Olympisch Stadion e dell’Amsterdam Arena. Non un fenomeno ma indubbiamente un ottimo professionista (la sua annata migliore fu la stagione 86-87, quando l’Ajax tornò a vincere in Europa battendo 1-0 il Lokomotive Lipsia nella finale di Coppa delle Coppe); non molti però sanno che il buon Stanley è un miracolato. Nell’estate del 1989 infatti un aereo modello SLM DC 8 che trasportava una selezione di giocatori olandesi, tutti di colore, diretti in Suriname per disputare un torneo amichevole contro la nazionale locale, si schianta sull’aeroporto Zanderij di Paramaribo causando la morte di numerose persone, tra le quali l’intera squadra e lo staff tecnico. E’ la tragedia del “Kleurrijk Elftal” (letteralmente “squadra di colore”, nomignolo che indicava appunto una selezione oranje composta da giocatori di origine surinamese), e quando il 12 agosto si ritorna in campo per l’inizio del campionato, la Eredivisie riparte senza Steve van Dorpel, Llyod Doesburg, Andro Knel, Ruben Kogeldans, Ortwin Ginger, Fred Patrick ed Andy Scharmin. Tra gli scampati invece Aaron Winter, Ruud Gullit e Frank Rijkaard, che non avevano ricevuto il permesso dai propri club, rispettivamente Ajax e Milan, di aggregarsi alla selezione, Winston Haatrecht, costretto a rinunciare alla convocazione in quanto impegnato con l’Heerenveen nella “nacompetitie” (i play-off salvezza/promozione), e proprio Stanley Menzo, che si era recato in Suriname con un volo precedente.
3. Non erano tempi facili per l’Ajax quelli sul finire degli anni Ottanta, tra scandali, squalifiche, insuccessi e tragedie. Di queste ultime abbiamo già parlato, riguardo al resto si passa dell’affare FIOD alla squalifica dalle coppe europee, per terminare con le quattro stagioni consecutive di digiuno (proprio come sta accadendo oggi) dalla vittoria del titolo nazionale. Lo scandalo FIOD è presto spiegato; nell’ottobre del 1988 i vertici del club finiscono sotto indagine da parte del Fiscale Inlichtingen en Opsporings Dienst, una sorta di agenzia di controllo fiscale, in merito ad alcuni pagamenti in nero di giocatori ceduti negli anni compresi tra il 1979 ed il 1985, per una vicenda che porterà alle dimissioni in blocco dei vertici societari e, cinque anni dopo, alla condanna da parte della Corte di Giustizia di Amsterdam al pagamento di due milioni di fiorini per frode. Il 27 settembre 1989 invece nell’incontro casalingo contro l’Austria Vienna, valevole per il terzo turno di Coppa Uefa, viene lanciata dai tifosi dell’Ajax una barra di metallo che colpisce sul capo il portiere austriaco Franz Wohlfahrt causando la sospensione dell’incontro sul punteggio di 1-1. Pesanti sono le sanzioni inflitte dall’Uefa; sconfitta dell’Ajax per 3-0 a tavolino, squalifica per un anno da tutte le competizioni europee ed obbligo di giocare, una volta terminata la squalifica, i primi tre incontri casalinghi in Europa ad almeno 300 chilometri da Amsterdam.
4. Infine il dominio del Psv di Guus Hiddink, spezzato solo al termine della stagione 89-90; il club della Philips perde Ronald Koeman per scelta di mercato e, nella seconda parte di stagione, Romario per infortunio (il brasiliano finisce ko contro l’Fc Den Haag, partita conclusa dal Psv con un perentorio 9-2, ma riesce comunque a laurearsi capocannoniere del campionato grazie una strepitosa media di 23 gol in 20 incontri, ovvero 1,15 reti a partita). Ne approfitta l’Ajax di Don Leo Beenhakker, rientrato alla base proprio quell’anno, che si presenta alla penultima giornata con due punti di vantaggio sui rivali. Gli ajacidi (Menzo, Wouters, Winter, Roy, il bomber svedese Petterson, i giovani gemelli De Boer, Dennis “Mister Class” Bergkamp e la futura meteora genoana Marciano Vink) ce la mettono tutto per regalare il quinto titolo consecutivo al Psv, prima pareggiando 2-2 contro il Roda al Watergraafsmeer, dopo essere stati sotto di due gol fino ad undici minuti dal termine ed aver riequilibrato la partita grazie a Jonk e a Willelms, entrambi entrati nella ripresa, poi 1-1 al De Goffert di Nijmegen contro un Nec alla disperata ricerca di punti salvezza (anche in questo caso è Wim Jonk a riequilibrare il risultato), ma questa volta il processo di auto-distruzione non arriva al suo pieno compimento, paradossalmente proprio grazie ai nemici di sempre del Feyenoord, che dalla palude di un anonimo undicesimo posto si regalano un improvviso scatto d’orgoglio imponendo al Psv un pareggio che indirizza definitivamente la Eredivisie sulla strada di Amsterdam.
5. Torniamo al presente con le parole del giovane difensore del Psv Dirk Marcellis, che in vista del quarto di finale di Coppa Uefa contro la Fiorentina ha dichiarato: “Spero che i viola facciano giocare Manuel Da Costa, così per noi l’incontro sarà più facile”. Non propriamente una dichiarazione di stima, ma del resto il difensore portoghese ad Eindhoven non ha lasciato grandi ricordi. Tecnicamente parecchi gradini sopra Marcellis, Da Costa cade rovinosamente dal punto di vista della mentalità; presuntuoso, supponente e poco concentrato in campo, il giocatore nato a Saint-Max, comune francese nella regione della Lorena, il 6 maggio 1986 da padre portoghese e madre marocchina, si è guadagnato una buona fama tra gli osservatori di calcio internazionale prima grazie a un ottimo torneo giovanile disputato a Tolone nel 2005 (giocava nel Nancy, si misero sulle sue tracce Paris Saint Germain e Inter), quindi per le belle prestazioni con la maglia del Psv in Champions League. Peccato però che il suo rendimento sia drasticamente calato in Eredivisie, dove ha accumulato errori banali e grossolani in quantità, tanto da finire in panchina per lasciar spazio al già citato Marcellis, disastroso fino allo scorso autunno, adesso in crescita, e al modesto ghanese Addo. Uno spreco di talento che a Firenze Cesare Prandelli può fermare. Fino ad allora alla seta pregiata di Da Costa continueremo a preferire la lana grezza di Marcellis.
6. In Italia dalla Eredivisie non si importa ormai quasi più niente, mentre dalla più modesta Jupiler League belga qualcuno tenta sempre di scovare il grande affare, spesso con risultati deludenti. Lo testimoniano i casi di Tony Sergeant e di Anthony Vanden Borre, per i quali però occorre fare un netto distinguo. Nel primo caso il flop è imputabile in maniera piena a chi ha avallato l’acquisto del giocatore ignorando completamente il contesto dal quale proveniva. Sergeant, centrocampista destro-centrale di spiccate propensioni offensive arrivato la scorsa estate a Bari (da cui è ripartito a gennaio per tornare in patria nel Cercle Bruges), era reduce da un paio di ottime stagioni con lo Zulte Waregem, squadra di semi-professionisti capace di passare nel giro di un paio di stagioni dalla Tweede Klasse belga alla vittoria in coppa nazionale, con tanto di qualificazione Uefa. Un miracolo e una bellissima storia, frutto però di una di quelle strane alchimie che a volte si manifestano all’interno delle squadre più improbabili, rendendole protagoniste di avventure uniche e irripetibili. In tali occasioni il valore del collettivo supera di gran lunga quella dei singoli, creando un amalgama pressoché perfetto che finisce però con l’amplificare le reali potenzialità dei giocatori. Fino all’età di 23 anni Tony Sergeant come primo lavoro faceva l’assicuratore. Fino al 2004 era un anonimo trequartista dell’Anversa. Indubbiamente per lui la Serie B è stata l’occasione della vita, ma davvero qualcuno poteva pensare che sarebbe stato l’uomo giusto per riportare il Bari nella massima serie? Curriculum, referenze e talento diverso invece per Anthony Vanden Borre, enfant prodige del calcio belga già a 16 anni nel giro della prima squadra dell’Anderlecht e della nazionale. Il ragazzo non ha trovato spazio a Firenze, e ne sta trovando poco anche a Genova con i rossoblu di mister Gasperini. Lo scorso autunno però è stato colpito da un gravissimo lutto. Ad appena 20 anni, lontano da casa, tutto diventa ancora più difficile. Merita rispetto e pazienza. Per il termine flop aspettiamo almeno fino alla prossima stagione.

Alec Cordolcini
wovenhand@libero.it

Non è un argomento da titolo come il fuorigioco di Camoranesi, ma il ricorso di Sky all’Unione Europea è senz’altro più importante per l’assegnazione degli scudetti futuri. E non è un caso che i media abbiano quasi totalmente oscurato la vicenda, dal momento che gli editori puri non esistono più da decenni. Per farla breve, da più di una settimana l’emittente di Murdoch ha presentato presso la Commissione Europea un ricorso contro la legge sui diritti televisivi il cui volto è stato quello di Giovanna Melandri, perché lederebbe i diritti della concorrenza. Verissimo, da buone ultime ruote del carro l’abbiamo scritto sei mesi fa dopo avere consultato i nostri legali (in realtà uno solo, ma parlare al plurale fa effetto: ce l’ha insegnato quel direttore querelomane finito non sappiamo bene dove): una norma anticostituzionale, perché va a toccare la libertà di impresa imponendo la vendita collettiva, prima ancora che contro un fantomatico. Diciamo fantomatico perché si sta parlando dei soliti tre, quattro soggetti che decidono a tavolino come spartirsi tutto: a meno che non esista qualcuno di così stupido da rinunciare alla squadre con più tifosi per puntare su realtà geografiche e sportive dallo share infinitesimale. Per questo il ricorso di Sky è sembrato improvvisato, con argomentazioni quasi pretestuose, ispirato in fretta e furia quasi a voler prevenire l’intervento in ordine sparso dei proprietari di società con tanti potenziali teleabbonati: prima di tutti Zamparini, che fra un esonero e l’altro aveva visto giusto parlando in Lega di anticostituzionalità, poi De Laurentiis convinto che in tutto il mondo ci sia voglia di Napoli, infine tutti gli altri medi con ambizioni. In una trascurata intervista ad Antenna Tre Berlusconi aveva fatto intuire che la legge Melandri avrebbe avuto vita breve, ma non poteva certo mandare allo sbaraglio un Galliani che vuole giocarsi bene le sue carte da commissioner di una Lega depurata dalla B e dai piccoli. Una lega che vada verso un campionato semichiuso a 16 squadre magari con fase a orologio per allungare il brodo e playoff per vendere qualche superevento anche al chiaro oltre al metadone della pay. Un presidente di queste medie con ambizioni spiegato ai suoi più stretti collaboratori che Matarrese ha i mesi contati, a meno che non si esibisca nell’ennesimo carpiato alla Louganis abbandonando la provincia al suo destino, e che milanesi, romane, Juve e Fiorentina hanno strategie diverse pur nella comune lotta alla legge ‘comunista’. Bianconeri e Inter vorrebbero tornare ai vecchi diritti soggettivi, che poi sono all’origine dei contratti in essere fino al 2010, Fiorentina e Lazio vorrebbero mettersi di traverso spuntando cifre superiore al numero assoluto dei propri tifosi (con questo trucco: stadio virtuale, cioè percentuale di diritti alla squadra in trasferta, del 19 per 100 quando in trasferta ci sono le piccole, e del 50 quando ci sono le sei sorelle), la Roma sta nel mezzo ed il Milan culturalmente starebbe con Moratti e Cobolli ma praticamente ha una mission che per il gruppo conta più della Champions League: sventare la nascita di quella tivù della Lega vagheggiata da Matarrese e ben delineata nel progetto di un giornalista di valore, per salvare il digitale terrestre di Mediaset e le televisioni del finto nemico Murdoch. Che solo l’antiberlusconismo viscerale genere Micromega poteva trasformare in uno di sinistra…

Malati per vincere

Seguiamo con affetto Cristian Chivu fin da quando l’Ajax lo prese giovanissimo, l’abbiamo frequentato a Roma, lo apprezziamo all’Inter e impazziremo quando chiuderà la carriera nella Steaua. A chi storce il naso solo all’idea che per l’ennesima volta parleremo di lui, al di là del fatto che il Direttore ci lasci liberi (del resto, non pagandoci…) di scegliere gli argomenti, diamo un consiglio: leggete le prime due righe. Poi siete liberi di tornare ai gustossissimi media nazionali che vi riempiono di notizie esclusive: e’ la settimana giusta, del resto. Senza partite di club chissa’ quanti straordinari pezzi di mercato: a proposito, Gerrard e Lampard hanno firmato? Abbiamo letto grandi pezzi sul fair play fra Inter e Juve, al di là della rivalità fra tifosi: giusto così, per chi crede che il giornalismo debba avere una funzionie educativa, ma sbagliarto per chi pensa che la verità sia più interessante di lezioncine etiche o di congetture di mercato. In sintesi: sabato sera Salihamidzic ha avuto la splendida idea, o qualcuno gliel’ha ispirata, di tirare Chivu per il braccio fin dall’inizio della gara. Non in maniera violenta, ma in maniera sistematica, scientifica, oseremmo dire chirurgica. Obiettivo dichiarato quello di fargli saltare la spalla, spalla che ovviamente è saltata. di sabato sera. Nell’intervallo Chivu se l’è rimessa a posto con dolore notevole ma anche con una competenza ormai acquisita. E’ diventato bravo, quasi come togliersi e rimettersi le scarpe. Non ci interessa farvi avere un’immagine eroica di un calciatore che fa solo il suo, giustificando lo stipendio e nulla più, anche senza la retorica del gladiatore. Però, come diceva alla fine della stessa gara, provate voi a correre con un braccio rotto per cinque minuti e poi vediamo se riuscite a sopportate il dolore. Giocare cosi ogni tre giorni e’ una pena tremenda. L’Inter chiama, lui risponde, fin qui tutto logico. Ha deciso di operarsi, a metà luglio, come avrete letto su qualche quotidiano (non su quelli più presuntuosi, che poi si riducono a copiare dai siti ufficiali). Lo farà ad Amsterdam, dallo stesso chirurgo che ha operato Bogdan Lobont, suo amico e compagno all’Ajax. Si tratta dello stesso infortunio, e se per un portiere ha funzionato alla perfezione allora a maggior ragione tutto dovrebbe andare bene anche per un difensore. Europei, matrimonio, intervento. Poi due mesi di stop, il primo di assoluto riposo. Gli abbiamo consigliato di operarsi appena finito il campionato, ma non intende rinunciare agli Europei. “Ho lavorato come un matto per qualificarmi, per quale ragione dovrei perdermelo?”. Quello che non manda giù è l’atteggiamento della sua nazionale, di cui fra l’altro è capitano. Per l’amichevole contro la Russia lo hanno convocato, fregandosene della spalla ballerina. Piccolo riassunto delle ultime due amichevoli: contro la Germania si rompe il braccio, contro Israele gioca per novanta minuti in dieci contro undici dopo aver fatto altri novanta minuti dieci contro undici con l’Inter (contro l’Empoli). Ed era appena tornato dall’infortunio. Sorvoliamo sul fatto che a Tel Aviv fosse arrivato alla una di notte con ritorno alle cinque del mattino. Per sua fortuna Mancini lo ha lasciato dormire in Israele chiedendo al club di trovargli un biglietto il giorno seguente. Ora gli tocca scendere in campo rotto e stanco. Non possiamo immaginare che Victor Piturca debba vederlo all’opera, saprà bene come gioca il suo capitano. Ma tant’è. Le federazioni si arricchiscono incassando i soldi dei diritti televisivi, i calciatori si spremono. Se si rompe, il giocatore è una femminuccia. Se si lamenta, un viziato. Vale per Chivu come per tutti gli altri mille rientri forzati, ‘per dare una mano alla squadra’. Lo diranno soprattutto coloro che per una linea di febbre si mettono in malattia una settimana. Aveva ragione Ancelotti: il calciatore non è un uomo sano, ma un malato che deve essere messo in condizione di giocare. Rispettando la sua salute, ad un un nazionale non dovrebbe essere consentito di giocare più di quindici partite a stagione con il suo club. Ma tanto sono ricchi e viziati.

Dominique Antognoni
dominiqueantognoni@yahoo.it

1. Fino a un paio d’anni fa ogni volta che andavamo a Londra avevamo una tappa obbligata. Posata la piccola valigia nel bed and breakfast e rifocillatisi velocemente in un fast food, si prendeva subito il più vicino metrò che faceva tappa a Tottenham Court Road (quasi tutti, a dire la verità, perché è uno svincolo importante). Da lì si usciva avendo di fronte il Tottenham Road Pub, si girava a destra e si imboccava Charing Cross Road, percorrendola a piedi per circa dieci minuti fino ad arrivare al numero 96, dove era ubicata la mitica “Sportspages”, libreria specializzata e luogo di pellegrinaggio per tutti i calciofili, non solo inglesi. Se si stava via quattro giorni, ad esempio, il rito era ripetuto almeno tre volte, anche nei ritagli di tempo magari, ma si trovava sempre il tempo di passare di lì e vedere pian piano svuotarsi il portafoglio. Ora non possiamo più farlo, Sportspages è infatti stata chiusa un paio d’anni fa, dopo vent’anni di attività, perché pare che gli affari non andassero più bene, troppo alta la concorrenza di internet. Ricordiamo comunque di aver acquistato decine e decine di libri in quel luogo e almeno cinque o sei riguardavano varie edizioni di “Aerofilms football grounds”, volumi cioè dedicati a foto di stadi presi dall’alto, a volte libri che mostravano foto di com’erano e come sono diventati gli stadi inglesi prima e dopo il famoso Taylor Report del 1990. Ci ha fatto estremamente piacere trovare in libreria in Italia qualcosa di simile che finalmente riguarda anche il calcio nostrano. Grazie al lavoro dell’olandese Tijs Tummers e dell’italiano Clino D’Eletto è uscito nelle librerie “ Storia degli Stadi d’Italia”, illustrata attraverso cartoline d’epoca. Un lavoro davvero notevole, bellissime cartoline quasi tutte degli anni ’30 e ’40. Alcune immagini veramente straordinarie, come una foto del campo della Sampierdarenese nel 1920, oppure una foto dello stadio del Vigevano di quasi ottant’anni fa, senza dimenticarne una del Velodromo Sempione, campo di gioco del Milan ma abbattuto già nel 1928. In un’editoria italiana che si barcamena fra una biografia di Kakà e l’ennesimo libro di Totti, finalmente un lavoro che ci è piaciuto veramente.

2. Il problema dell’elevato costo dei biglietti e degli abbonamenti in Gran Bretagna è ormai una piaga che si trascina da anni. I club, soprattutto quelli di Premier League, sono sempre stati restii agli abbassamenti dei prezzi, soprattutto perché quando si hanno comunque gli stati pieni non ne vale la pena. Ad oggi però alcuni vuoti cominciano a vedersi anche negli stadi d’Oltremanica (fenomeno visibile anche assistendo alle partite davanti alla tv) e quattro club in particolare (Middlesbrough, Wigan, Bolton e Blackburn) da quest’anno hanno deciso di ridurre sensibilmente i prezzi sia di abbonamenti che di biglietti singoli. Questa politica ha avuto successo in tre casi su quattro, visto che solo il Boro vede ancora un segno negativo nell’affluenza di pubblico rispetto alla stagione 2006/07. Dobbiamo anche dire però che al Riverside Stadium il fenomeno è in atto da quattro anni e la stagione del Middlesbrough non sta aiutando certo lo sforzo compiuto dal club per riportare pubblico sugli spalti.

3. Anche lo scorso weekend il calendario prevedeva (casualmente?) un ennesimo scontro incrociato fra le cosiddette Big Four. Proprio la domenica di Pasqua alle 13.30 locali il Manchester United ha distrutto il Liverpool all’Old Trafford con un netto e inequivocabile 3 a 0. A dir la verità sul risultato finale ha pesato l’affrettata espulsione di Mascherano alla fine del primo tempo, ma la dimostrazione di forza da parte dei Red Devils è stata evidente. Una squadra che si permette di lasciare inizialmente Carlos Tevez in panchina, che ha nelle sue fila un intramontabile Ryan Giggs e che da un’impressione di solidità e di compattezza che non ha pari in Inghilterra. Al Liverpool invece è andato tutto storto. In dieci per tutto il secondo tempo quando già si trovava sotto per il gol di Wes Brown, e con un nervosismo che è cresciuto con il passare dei minuti e che era ben visibile sul volto di Rafa Benitez. Ora i Reds dovranno affrontare l’Arsenal in tre incontri consecutivi, uno valevole per la Premier e gli altri due per i quarti di finale di Champions League. Per Benitez siamo all’ennesimo crocevia. Nell’altra grande sfida allo Stamford Bridge si affrontavano il Chelsea e l’Arsenal. Vittoria dei Blues in rimonta, 2 a 1 con doppietta di Drogba. I Gunners stanno probabilmente tirando il fiato, ma ora sono finiti a ben sei punti dallo United. Per il Chelsea ripetiamo quanto detto già qualche settimana fa: attenzione a questa squadra, sta viaggiando a fari spenti ma ha recuperato posizioni in campionato (ora si trova da sola al secondo posto) e in Champions affronterà il non irresistibile Fenerbahce. L’impresa sembra ardua sia in Patria che in Europa ma chissà mai che Avram Grant riesca a fare quel miracolo “europeo” che non è mai riuscito – a Stamford Bridge- all’ottimo Mourinho.

Luca Ferrato
ferratoluca@hotmail.com

E adesso è anche troppo facile dire che il Cannibale non morde più, che Roger Federer è praticamente finito, che il suo regno traballa e presto verrà giù con tutto il trono. Il fatto che il suo ultimo attentatore, Mardi Fish, abbia impegnato poi in finale pure Djokovic, non fa recedere quelli che pensano, giudicano e sentenziano che Indian Wells e la sconfitta in semifinale siano una prova: Federer è finito o quasi. Così ecco che vengono fuori particolari, per lo più piccanti: c’è chi dice che all’ultimo torneo non c’era più l’onnipresente Mirka, che invece spunterà da alcune foto ritratte durante un allenamento. E la mononucleosi? Beh, quella è già passata, nonostante Roger non l’abbia mai presa come giustificazione per i suoi insuccessi di inizio anno. Insomma, c’è fretta di buttare giù il Totem, eppure noi aspetteremmo ancora un po’ a dire che il Tiranno gentile del tennis sia pronto per l’abdicazione. Lo ha spiegato in fondo lui, Federer, dopo la sconfitta con Fish, dichiarandosi soddisfatto del suo torneo, nel quale tornava in campo – appunto – dopo il periodo di debilitazione dovuto alla malattia: “Ho bisogno di giocare – ha detto – e le sensazioni cominciano ad essere buone. Peccato il forfait di Haas nei quarti, non giocare ha rotto il ritmo che stavo acquistando e contro Fish si è visto. Comunque sono ottimista, presto sarò pronto”. Di questi tempi non gli crede nessuno, eppure guardandolo negli occhi c’è chi giura che non sia finita qui. Anzi, che magari a Parigi…

Marco Lombardo
marcopietro.lombardo@ilgiornale.it

1. Costante Girardengo, Gino Bartali, Fausto Coppi, Nilla Pizzi, Loretto Petrucci, Domenico Modugno e Johnny Dorelli, Eddy Merckx (x3), Nicola Di Bari, Roger De Vlaeminck, Laurent Fignon, Erik Zabel (x2). A Sanremo si contano più doppiette (consecutive) che in Val Trompia, da quando si è aperta la stagione della caccia alla Classicissima di primavera, nel lontano 1907. Quest’anno la licenza di rivincere è concessa a Oscar Freire Gomez, vicino al terzo bersaglio grosso tra via Roma ieri e il lungomare Calvino oggi. Domani è un altro giorno buono per dibattere con Gianni Ippoliti: perché ha vinto lo spagnolo di Svizzera? Cattiverie: perché il team Milram non tira mai la volata al solo Alessandro Petacchi. Perché la Liquigas non ha schierato il suo velocista da gruppo compatto, Francesco Chicchi. Perché il miglior Quick Step del momento non è né Paolo Bettini né Tom Boonen, ma Gert Steegmans. Perché il Poggio ai 40 Km/h non lo si fa più dai tempi di Giorgio Furlan e Laurent Jalabert, colpi di fulmine molto prima di Giò di Tonno e Lola Ponce.
2. La stasi del movimento ciclistico non è (ancora) il Ministero per la sicurezza di Stato della Ddr, il grande fratello de “Le vite degli altri” e della seconda vita di Jan Schur, uno dei quattro campioni olimpici a Seul ’88 nella 100 Km a squadre. E certo il rallentamento dell’attività è dovuto alla crisi politica e diplomatica in corso, in particolare sull’asse Aigle-Parigi. Ma qui tocca già assistere a scene da film dell’orrore giuridico, da famiglia Adams – Anti-Doping Administration & Management System, protagonisti zombi e vampiri: i controllati e i controllori della situazione, ormai fuori controllo. Nei limiti stabiliti dalla legge devono essere compresi e tutelati “i diritti che spettano ai corridori come a ciascun essere umano”, denuncia il sindacato italiano. Il rovescio della medaglia al valore dell’operazione di pulizia dell’ambiente, avviata nell’ultimo decennio, è il prezzo altissimo pagato alla privacy personale e familiare e alla libertà di movimento. Siamo dalle parti dell’obbligo di dimora, non lontano dagli arresti domiciliari. Dove andremo a finire?
3. Magreglio (Co). Primo Merckx. “Al Mondiale di Barcellona ’73 Felice era imbattibile, altro che storie. La verità è una sola: quel giorno non ho avuto le gambe per rispondergli. Punto”. Secondo Gimondi. “Niente da dire, Eddy è stato davvero il più grande di tutti. Più forte anche di Fausto Coppi”. I reciproci complimenti tra i due (veri) amici di ieri e di oggi seguono l’ordine d’arrivo di sempre. E non sono preceduti da alcuna falsa cortesia, né sul passato né sul futuro del ciclismo. “Le federazioni e i gruppi sportivi devono pensare anzitutto a tutelare i loro tesserati.
4. Figuriamoci se i problemi gestionali e i conflitti di potere possono impedire al professionista di correre liberamente. Ma stiamo scherzando?”. Evidentemente no. Come insegnava papà a suo figlio Axel: “Se un giorno vorrai fare sul serio dello sport, mettiti bene in testa che non ci sarà mai nessuno che ti farà vincere. Nessuno”. È il mito del Cannibale, mica quello di Kronos. Al Museo del ciclismo Madonna del Ghisallo, per la rassegna “Storie di ciclismo”.
5. Il Maspes-Vigorelli di via Arona 19 o, come dicevan tutti, il Vigorelli di Milano sarebbe anche lo stadio perfetto per il football americano in città (Rhinos e Rinoceronti), non ci fosse di mezzo – tra la tribuna coperta e il campo in sintetico – quell’ingombrante pista in legno lunga 397,27 metri e larga 7,50, inclinazione massima 42 gradi. Un anello fuori misura e fuori dal tempo, attualmente inutilizzato o sottoutilizzato, e nonostante la lotta per la sopravvivenza di “una tribù di pistard urbani dediti alla riconquista degli spazi metropolitani su velocipedi a rapporto fisso”. Nei suoi settantatre anni di storia l’impianto è stato ricostruito almeno due volte: dopo i bombardamenti del 1944 e dopo la nevicata del 1985. A quando la terza? Nel 2007 è stato depositato un progetto per la trasformazione del velodromo in un vero e proprio palazzetto dello sport, il perimetro dell’ellisse finalmente ridimensionato e messo a norma. Settimana prossima Mondiali di specialità a Manchester, ospitati nel National Cycling Centre. “The Versatile Venue for the 21st Century”.

Francesco Vergani
francescovergani@yahoo.it